1966 – Ragazze strette strette_di Giorgio Deiana

Era il 1966. Frequentavo la Casa dello Studente, dove alloggiava un collega di Facoltà, col quale ci eravamo accordati per studiare Diritto privato.  Per questo, essendo io motorizzato, mi recavo tutti i giorni alla Casa. Era il 1966 e ancora il clima generale  era piuttosto festaiolo. Avevo notato, con qualche sorpresa, da “cittadino” prevenuto, che i ragazzi fuori sede amavano divertirsi, sapendolo fare. Così che la Casa era spesso  centro di intense attività ricreative anche legate alla goliardia. Complessini, prevalentemente beatleriani, allietavano le feste da ballo nell’ampio salone della mensa, sempre pieno, in queste occasioni, fino all’inverosimile.

Il 1966 fu,  pure, l’anno degli orfani dei Beatles che, per l’ultima volta, si sarebbero esibiti in pubblico. Quelle erano occasioni formidabili per intessere rapporti anche sentimentali, e stringere “lecitamente” e con misura, il corpo di ragazze sconosciute. I più attivi erano senz’altro i fuori sede di entrambi i sessi con i quali era possibile instaurare rapporti solo se opprtunamente presentati da uno della comunità. Partecipavamo attivamente alle feste da ballo, anche perché generalmente le ragazze le portavamo noi. Nel 1966, un amico di Scienze Politiche, aveva aperto nel Largo, in un palazzo storico, un circolo giovanile finanziato dai socialdemocratici, con l’intento di stabilire legami con gruppi di giovani,  così da iniziarli  alla politca. Non ricordo, peró, una sola riunione che avesse, in qualche modo, contenuti politici. Il Circolo apriva alle quattro del pomeriggio e si andava avanti fino a tarda sera, dal lunedì al venerdì. L’ unica attività che ho visto praticare ed ho praticato, era il ballo. La gestione del circolo era affidata a un giovane simpatico, intraprendente e disinvolto. Un vero padrone di casa che, fin  dai primi giorni  mi prese in simpatia. Mi presentò personalmente all’intera compagnia, specialmente femminile, e già questo rappresentava il miglior viatico per un giovane timido… E poi mi disse: “Qui si balla stretto.” Come se intendesse trasmettermi una parola d’ordine. E in effetti constatai da subito che in quel circolo si ballava stretti stretti. In generale si trattava di giovani impiegate, commesse, segretarie di qualche politico, piuttosto disinibite che amavano divertirsi.  Per noi giovani diciottenni quel luogo costituì una specie di rito di iniziazione. Le regole erano chiare e semplici: 1) prendere solo quel che  le ragazze erano disposte a concedere,   2) niente complicazioni, 3) niente coppie fisse, ma quest’ultima regola godeva di qualche eccezione tollerata.

Nel circolo, su quella che doveva essere la cucina, si apriva una veranda chiusa, che generalmente era adibita alle  nostre chiacchiere, che si svolgevano paritariamente e dalle quali erano esclusi argomenti strattamente politici. Quell’anno in Sicilia fu rapita una ragazza, Franca Viola, la prima donna che rifiutò il matrimonio riparatore. Fu oggetto di discussioni animatissime, che vedevano noi maschi inseguire le nostre amiche quanto ad apertura mentale. Anche da  lì capii che le donne erano di molti  passi avanti a noi su tutti i temi che riguardassero  rapporti sociali o interpersonali. Spesso, però, le chiacchiere diventavano confabulazioni riservate, più raramente intime. Oddio, quanto ho imparato da quei colloqui! E ho anche un poco praticato. Ricordo che nei primi mesi di quell’anno era in voga un brano di Adamo che si intitolava “Lei”. Un lento straziante che piaceva a tutti, quindi l’accordo con l’addetto(?) al giradischi era: ogni tre, metti “Lei”. Quel disco condizionava anche i nostri balli. I lenti generalmente li ballavamo stretti stretti, guancia a guancia. Senza intervallo, neanche per fumare: la sigaretta tra le dita, il braccio allungato lungo la gamba, languidamente. Ma con quel pezzo, quando Adamo attaccava “È libera nessuno può fermarla, ha deciso di non amarmi più”, veniva naturale allentare la stretta, la ragazza poggiava la sua guancia sulla mia spalla e l’intreccio dei nostri corpi diventava amore puro senza amore. Non so se l’ha detto qualcuno, ma quei balli erano il più bel surrogato dell’amore, non solo fisico. Era il ’66 e noi avevamo appena diciotto anni. Fu un anno davvero straordinario. Tutto finì quando cessarono i finanziamenti e quando quel poco senso di responsabilità che ci era rimasto, sollecitò molti di noi a riprendere gli studi con maggior lena. Non finirò mai di ringraziare quel giovane quasi omonimo che, in seguito, fu coinvolto in un brutto caso giudiziario  che fece molto rumore in città e riguardava vicende della Cagliari-bene. Lui era l’anello debole e pagò per tutti. Ma ancor di più fummo grati alle “ragazze strette-strette” per tutto quello che ci avevano insegnato sulle donne con grande generosità. Fummo davvero riconoscenti a queste compagne che, a posteriori, non potremmo non considerare un primo nucleo femminista cagliaritano.”Cammina per le strade deserte. Cammina con la pace nell’anima.”Era il 1966. Si celebrava ancora la festa della matricola, con tutte le sue liturgie: l’appostamento alle giovani leve, l’obbligo d’acquisto del papiro, gli interrogatori dei malcapitati, la corsa dei carretti, la sfilata per le strade del centro e l’inseguimento delle matricole più riottose. Tutte manifestazioni, queste, che si svolgevano con una prima fila di facinorosi ed un codazzo di studenti generalmente del secondo e terzo anno; a voler tacere dei fuori corso, i più esagitati. La grande sfilata che si snodava per i quartieri storici della città, aveva la sua naturale conclusione nella Casa dello Studente con declamazioni, balli, canti e grandi bevute, nel ripetto più severo della ritualità tradizionale. In quella occasione la compagnia del Circolo si trasferì alla Casa, dove le nostre ragazze strette-strette si distinsero per il loro glamour e noi, grazie a loro, godevamo dell’invidia e della gratitude generale degli studenti meno esperti. 
Di quel 1966, resta anche il ricordo di un episodio di cui fu vittima una matricola,  che ebbe l’ingenuità di presentarsi sul Viale Fra Ignazio, facoltà di giurisprudenza,  a bordo di una fiammante Fulvia  Zagato coupé grigio metallizzato. Ma non basta, ebbe anche la brillante idea di fermarsi davanti all’ingresso della facoltà,  con il finestrino aperto, a pochi passi da un nutrito gruppo di fuoricorso che non aspettavano altro. Troppo tardi lo sventurato si rese conto dell’imperdonabile errore. Quelli in un attimo affiancarono l’auto sportiva, con l’intenzione di dare inizio al tradizionale “processo” alla matricola, che normalmente si sarebbe dovuto concludere, nella peggiore delle ipotesi, con una generale bevuta a spese del malcapitato.

Ma, chissà perchè, quella volta i furfanti avevano deciso di rasare a zero il disgraziato. Il quale tra le tante cose giuste che avrebbe potuto fare, ne scelse una sbagliata: si ribellò. Dette gas al motore e partì, portandosi dietro tre degli interroganti più scalmanati, uno dei quali incollato al volante. A quel punto si  innesco’ una prova di forza tra il pivello e gli anziani davanti alla folla sempre più rumorosa di studenti. Alcuni dei quali, matricole in attesa di giudizio, presero a tifare segretamente per il giovane fuggitivo. Ciò nondimeno nessuna delle due parti mollava. Quello  appeso allo sterzo era uno  tracagnotto, non alto ma piuttosto muscoloso. La sua faccia gonfia e arrossata denunciava tutta la testardaggine di chi si era assunto l’onere di incarnare l’alfiere, deputato a ripristinare l’autorità violata e  la difesa della tradizione. Senza dimenticare che in gioco c’era il suo orgoglio personale: presso il popolo dei presenti e dei propri sodali una sconfitta sarebbe stata imperdonabile. Nessuna di queste motivazioni potevano attribuirsi al fuggitivo, il cui unico interesse era portare a casa lo scalpo. Così che, dopo qualche decina di metri in discesa, l’alfiere l’ebbe vinta, attirando il volante a sé. Finirono tutti addosso a un secolare​ pino che ebbe il privilegio di distruggere la fiancata  e parte del muso di quell’opera d’arte. Il resto lo fece una splendida Giulia Alfa Romeo parcheggiata dietro l’albero, anch’essa vittima di questa furia.All’inaspettato rumore di ferraglia si unì il silenzio della folla, improvvisamente ammutolita. I tre autori della bravata, rimasti illesi,  dopo qualche attimo di incertezza, si allontanarono dal disastro, in silenzio, cercando con lo sguardo un cenno di assoluzione da parte dei presenti. Che non venne. Ognuno di noi era impegnato a riflettere sull’enormità dell’accaduto. Nessuno ebbe il coraggio di avvicinarsi al luogo del misfatto, neppure i più curiosi. Il giovane, incredulo  e spaventato, non scese subito dalla sua auto e quando lo fece non ebbe occhi che per quella catastrofe. Poi tirò su il finestrino, chiuse in qualche modo lo sportello e si allontanò a piedi alla ricerca di un telefono,  senza uno sguardo per quella piccola folla imbarazzata. Inutile dire che i responsabili non sarebbero stati in grado di  risarcire neanche una vite di quel capolavoro.

Ma, in quel tempo, la festa della matricola era una sorta di zona franca, ante litteram.  Nessuno pagava, tranne le matricole. Con altri due colleghi ci allontanammo per la discesa di Viale Fra Ignazio: la sera ci saremmo incontrati con gli altri al circolo. Ci separammo in Piazza Yenne. Avevo preso l’impegno di ritirare, alla Casa del Disco di via Roma, l’ultimo successo di Simon e Garfunkel, the sound of silence, che sembrava appropriato, dopo il casino di quella mattina. Era il 1966, il mio anno formidabile! Incombeva il ’68, con i suoi rivolgimenti sociali, che metterà il lucchetto a tutto ciò che  non apparisse impegnato.”… e questa visione mi si è impiantata in testa. E lì rimane ancora, e dentro the sound of silence.”

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