Le manifestazioni di protesta di questi ultimi anni , che hanno coinvolto migliaia di cinesi di Hong Kong, mi riportano alla memoria i timori che gli intellettuali occidentali, di cultura liberale, avevano manifestato, con scritti e interventi pubblici, all’approssimarsi del giorno stabilito negli accordi del 1984, tra inglesi e cinesi, sul destino di Hong Kong. Nell’aprile del 1997 decidemmo, con mia moglie, di visitare Hong Kong e Macao. Da lì pensavamo di entrare nella Cina meridionale. L’idea ci venne perché quell’anno la colonia inglese sarebbe stata restituita alla Repubblica Popolare Cinese. Anche noi condividevamo l’idea che, al di là degli impegni assunti dalla Cina, sarebbe stata la fine lenta ma inevitabile della democrazia in quel territorio. Era nostro desiderio partecipare a quell’evento storico che ci avrebbe consentito di ricordare, negli anni: “C’ero anch’io!” Anche se non nascondevamo, nel segreto del nostro animo di occidentali che, se avessimo dato retta alle nostre pulsioni, non sarebbero bastate dieci valigie per il viaggio di ritorno. Il nostro motto spavaldo era: vedere tutto, comprare tutto e mangiare di tutto. Come era nostra abitudine, niente viaggio organizzato, piena libertà d’azione, eventualmente una guida che parlasse italiano per la cerimonia del passaggio di consegne. Questo era un elemento importante nella organizzazione del nostro viaggio. Mia moglie masticava un pó d’inglese, mentre io mi difendevo malamente in un francese scolastico, specializzato in domande ma assolutamente inadatto a capire le risposte. La nostra salvezza, in caso di necessità sarebbe stato il linguaggio dei gesti.

Partimmo da Elmas il 19 giugno col primo aereo del pomeriggio e alle 10 di sera dall’aeroporto di Fiumicino. Atterrammo a Hong Kong dopo nove ore. Pagammo 400$HK, credo come tassa di soggiorno, uscimmo dall’aeroporto e un taxi ci portò in albergo nella Hong Kong Island.

Non è mia intenzione raccontare i particolari di quel viaggio, ma uno o due episodi curiosi che ci capitarono nel corso di questo. Vedemmo tantissimo, comprammo tanto, ma quanto al mangiare non fummo molto esigenti. Costrinsi mia moglie a pranzare per alcuni giorni in un ristorante filippino dove, oltre ai cibi tradizionali cucinavano una squisita pasta e ceci e polpette al sugo formidabili. Mi spiegarono che aveva lavorato lì un cuoco italiano che aveva lasciato in eredità alcune ricette del suo paese. Nei giorni a venire, seguendo il consiglio di amici che erano stati precedentemente a Hong Kong, frequentammo solo ristoranti cinesi, nei quali era esposto un acquario, all’ingresso: una garanzia di freschezza del pesce!
Mia moglie era curiosissima di tutto, già dal secondo giorno mi aveva trascinato in lunghi sopralluoghi nelle grandi vie, ma pretendeva di visitare anche i vicoletti perché, a suo dire aveva avuto notizia che proprio nei vicoletti delle grandi strade si nascondevano i negozietti più interessanti e caratteristici. Fu così che, nell’unica visita ai vicoletti, facemmo la conoscenza di una comunità di pantegane, grandi come conigli, che stazionavano in quei vicoletti caratteristici, normalmente retrobottega dei ristoranti che avevano l’ingresso sfolgorante nei grandi viali della città. Niente più vicoletti!

Non avevo nessuna confidenza con dispositivi elettronici e tuttavia volevo fare, a tutti i costi, un regalo ad un carissimo amico che andava pazzo per i computers tascabili. In particolare un palmare della Casio che non era ancora uscito in Europa. Assunte le necessarie informazioni dal segretario dell’albergo, che capiva l’italiano, a bordo di un taxi, attraversammo il tunnel sottomarino che ci avrebbe condotto nella penisola di Kowloon, una concentrazione immensa di mercati e mercatini di tutto, dove una grande folla, di cui non riuscivamo a capire la direzione di marcia, ci aveva assorbito, così che noi non andavamo da nessuna parte precisa muovendoci a ondate con la principale preoccupazione di salvaguardare il nostri soldi e affini, da intrusioni ostili. Intanto due o tre personaggi si erano piazzati dietro di noi per rifilarci ogni genere di oggetti, compresi frigoriferi e condizionatori d’aria . Ci seguirono fin dentro una costruzione dove ci aveva sospinto la marea. Ci trovammo in un negozio lungo, stretto e alto, ben illuminato, con un bancone altrettanto lungo. Le grandi scaffalature, alte al soffitto, erano stipate di congegni elettronici, tutti quelli che la mente umana aveva fino ad allora concepito. Un cinese alto, grasso, con un pancione flaccido che si adagiava, insieme a due mani enormi, sul piano del bancone. Aveva una faccia simpatica attraversata da una cicatrice che si allungava dalla tempia fino al mento. Ci guardò con indifferenza: per lui potevamo anche non esserci. Questo atteggiamento interferiva con i miei piani, tutti volti ad una sfiancante trattativa, per ottenere il miglior prezzo. Intanto non ebbi alcuna difficoltà a richiedere il palmare, di cui avevo scritto il nome su un foglietto di carta, Cassiopeia. L’uomo lo guardò appena e senza scomporsi allungò la mano sotto il bancone e tirò fuori una scatola con su critto il nome che avevo segnato nel foglietto e la foto del palmare. A gesti gli chiesi se poteva mostrarmi l’oggetto, assumendo un’aria esperta di chi è in grado di valutare quel genere di prodotto, o almeno ci provai. Il venditore aprí la scatola e mi mise a disposizione l’oggetto che aprii con grande competenza. Chiesi all’uomo di accendere lo strumento e illustrarmi in breve le sue funzioni, perché, sempre a gesti, gli feci capire di non volermi assumere responsabilità per l’eventuale mal funzionamento dell’apparecchio.

Ci facemmo perdere reciprocamente un quarto d’ora di tempo, lui che spiegava e io che non capivo, fino ad arrivare al momento topico della contrattazione. Io conoscevo il prezzo con il quale il palmare veniva venduto negli Stati Uniti : 600 dollari, esattamente lo stesso prezzo che sparò il mercante Hong Konghese. Guardai mia moglie con un sorriso storto che voleva dire “qui ci sono ampi margini di trattativa” . Sorrisi anche al venditore mentre su un foglietto scrivevo 300. Ma lui, senza scomporsi, fece un flemmatico cenno di no con la testa. A questo punto rivolgendomi a mia moglie dissi: “Adesso gli scrivo 350 dollari e vedrai che quest’asino ci casca”. Non feci a tempo a voltarmi per formulare la proposta, che venni investito in piena faccia da un sonoro: ” Ma vaffanculo! ” in stretto accento napoletano. Era tanto inaspettata, assurda e paradossale la situazione che dopo un attimo di stordimento, cominciammo a ridere guardandoci in faccia e guardando l’uomo e viceversa, di un riso talmente incontenibile che contagiammo anche il cinese che cominciò a ridere singhiozzando in modo così accattivante che contaggiò anche noi fino alle lacrime. Avevamo fatto nove ore di volo per beccarci un vaffa da un cinese di Hong Kong! Forse l’unico commerciante di Kowloon che conosceva l’italiano. L’uomo, che capiva discretamente la nostra lingua, aveva vissuto per qualche tempo a Napoli, per motivi di “businesses”, ci disse. La cicatrice sul volto ne era una lampante testimonianza. Ma non mollò sul prezzo del palmare, che non comprai.

Un’altra meta del nostro viaggio furono i Magazzini di Mao, una sorta di emanazione dei magazzini di Stato cinesi. In realtà ci rendemmo conto di trovarci in un grande magazzino, genere Rinascente, molto più ampio, ma anche molto più costoso. Tra i milioni di oggetti esposti, acquistammo due lenzuola matrimoniali di seta, rosso amaranto, che in vent’anni abbiamo usato solo due volte. Sono soffocanti d’estate e gelide d’inverno. Dal che deducemmo, per consolarci, che il comunismo aveva fallito anche tra le lenzuola. Quanto alla cerimonia del trapasso, che avvenne a notte fonda, ricordo che il trenta giugno era una giornata piovosa e le misure di sicurezza eccezionali, per cui in pratica, nonostante l’impegno profuso da Noun, la giovane guida macaense, non vedemmo tanto quanto avremmo desiderato. La città sembrava mantenere gli stessi ritmi degli altri giorni, i milioni di condizionatori spremuti al massimo, perfino nelle bancarelle da strada, mitigavano il caldo afoso di quella giornata piovosa che nascondeva le lacrime degli inglesi, il Principe Carlo in testa, che se ne andavano e la gioia dei gerarchi cinesi, che innalzavano la loro bandiera su Hong Kong. C’ero anch’io quel primo luglio 1997, ma anche no!

Rientrammo al nostro albergo, il Wharney hotel, che avevamo ribattezzato Antartide Hotel. Nella hall, che in genere attraversavamo di corsa, c’era il solito freddo polare. La nostra giovane guida appariva costernata per non averci messo nelle migliori condizioni per assistere alla cerimonia. Così che fummo costretti a millantare di avere riconosciuto, dietro quella muraglia umana, Carlo, Toni Blair e il Governatore di Hong Kong . Ma non ci azzardammo ad affermare di avere riconosciuto i leader cinesi, perché loro sembravano tutti uguali. La sera successiva tutti e tre ci concedemmo un pranzo cristiano, cenando al Rigoletto: un ristorante italiano di cucina classica emiliana, a pochi passi dall’albergo. Avemmo l’onore, grazie alla gentilissima guida, di sedere all’affollato tavolo del Console portoghese, quali ospiti paganti, come del resto gli altri invitati, a “festeggiare” l’avvenimento della notte precedente. Tuttavia l’ atmosfera non denotava molta allegria. Due anni dopo, nel 1999, la sorte toccata ad Hong Kong, avrebbe colpito Macao. Il giorno dopo saremmo rientrati a casa, per assicurarci un meritato riposo. Erano stati quindici giorni pieni e anche confusi, per i miei occhi. Ero impaziente di tornare in Sardegna! Ma prima la Repubblica Popolare Cinese!
Non vi annoierò ricordando le escursioni nelle isole dell’arcipelago a bordo di junche condotte da donne piccole col volto di sfinge, le passeggiate notturne negli infiniti mercatini di Temple Street, la visita all’incredibile parco marino , l’Ocean l Park, poco fuori Hong Kong. O la visita ai Giardini del balsamo di Tigre, che oggi sono diventati quartieri residenziali. E l’imperdibile escursione con i tram d’epoca sulla collina di Victoria peak, da cui si gode un magico panorama sulla baia di Hong Kong.

Tuttavia di quello che non ho raccontato, mi piace ricordare il viaggio a Macao, un luogo incredibile, pieno di suggestioni, soprattutto per coloro che hanno amato il cinema noir americano degli anni ’50. Guardavo il porto e avvertivo le tracce dei passi lasciate da Jane Russell e Robert Mitchum ne “L’ avventuriero di Macao”. Mi vennero in mente le note di You kill me. Volli passeggiare per qualche minuto su quelle pietre. Poi, la nostra guida ci accompagnò in un maestoso casinò, sfavillante di luci e grandi vetrine in cui facevano bella mostra di sé, gioielli preziosi, pensati per una clientela esclusiva di donne potenti. Facemmo qualche tentativo con le macchinette mangiasoldi, giusto per vivere quell’atmosfera magica del casinò. Anche perché, solo per vivere il piacere di accomodarci al tavolo della roulette, era d’obbligo versare 200 dollari americani. A fondo perduto! Il centro storico di Macao ebbe su di noi un fascino singolare. Era come se fossimo stati catapultati nella parte vecchia di una città occidentale, vissuta con omogeneità, in un misto di culture e di etnie cinesi e portoghesi, rappresentate dall’architettura di templi, ville, piazze e chiese. Le sue strade brulicavano di gente, indaffarata in scambi di ogni genere: avemmo la precisa sensazione di essere gli unici perditempo che giravano senza meta. Era evidente la differenza con Hong Kong, dove la fiumana si spostava come un corpo unico nella medesima direzione, qualunque essa fosse.
Davanti alla Cattedrale di San Paolo, di cui resta in piedi solo la solenne facciata, con una grande piazza e un’ampia gradinata, non sfuggì all’ occhio della mia compagna un negozio di artigianato cinese, fitto di mobili di ogni genere, lavorati finemente, dove mia moglie scoprì, seminascosto in un angolo, uno splendido tavolino col piano di legno, intagliato, che sembrava essere lì da sempre. Vi era rappresentata una scena di battaglia della mitologia cinese, come ci confermò la giovane guida, che referenziò la bravura e la serietà dell’artigiano. Fu un amore a prima vista, per quell’oggetto settanta per settanta. Nel frattempo, con i piedi a pallone, mi ero seduto su uno sgabello di ferro posto all’ingresso. Senza chiedere il prezzo, la mia consorte si informó sulla possibilità che ci venisse spedito in Sardegna. Sardegna? Il cinese, perplesso, chiese notizie alla guida, la quale confermò l’esistenza e la posizione della nostra isola e, per quanto capii, garantì anche l’affidabilità dei due signori italiani. A quel punto l’uomo, uno magro, con un pizzetto biondo e mani affusolate e unghie lunghe, disse di sì. Il prezzo sembrava accettabile per un pezzo autentico. Ma avremo dovuto pagare, in anticipo, l’intera somma. Con mia moglie ci ritirammo per un conciliabolo, neanche tanto breve, concentrato sulla circostanza che il cinese, a mio parere, avesse due occhi furbissimi e inaffidabili. Quindi no, niente tavolino! Naturalmente l’ebbe vinta mia moglie sulla base della “logica” considerazione che, in fondo, ci trovavamo nella città mondiale del gioco d’azzardo. A nulla valse contrapporre la mia osservazione che la moneta di Macao si chiamasse pataca, e i nomi non si danno a caso! Alla fine scrivemmo il nome di mia moglie, perché fosse chiaro che non volevo essere io la vittima del bidone. Mentre lasciavo il numero del nostro telefono, dentro di me pensavo, che scemi! Con una certa riluttanza, consegnai la mia carta di credito al cinese, assicurandomi che la transazione avvenisse sotto i nostri occhi. Ma avevo già dato l’addio ai nostri soldi.Il giro della penisola comunque fu indimenticabile, soprattutto grazie a Noun, che di Macao conosceva ogni segreto.
Respirai l’aria di mare a pieni polmoni, a bordo del battello che ci riportava a Hong Kong.
Vent’anni dopo venne inaugurato il ponte che oggi collega le città di Macao e Hong Kong.
Della Cina? Dell’Impero d’Oriente parlerò un’altra volta!
P.S. Quindici giorni dopo il nostro ritorno, un corriere bussò alla porta di casa nostra consegnandoci un pacco voluminoso sul quale erano impressi idiomi cinesi e altre parole che pensammo portoghesi. In caratteri più grandi la scritta Macau. Dentro c’era il nostro tavolino!
Da quel giorno, in famiglia, le mie sensazioni, non hanno avuto più credito!