Quei nostalgici pranzi di Pasqua_di Ermenegildo Lallai

La Pasqua è una festa molto sentita in Sardegna e a Cagliari, alla stessa  sono legati oltre l’importante aspetto religioso anche tradizioni popolari e  familiari. Il giorno della Resurrezione , sopratutto negli anni passati, era consuetudine  dismettere gli abiti invernali e indossarne dei nuovi, primaverili. Oggi l’usanza può forse non essere capita dai più giovani in quanto , col consumismo imperante,  è normale “inaugurare”  vestiti  in qualsiasi momento dell’anno.

Venendo alle tradizioni tipicamente cagliaritane vanno ricordati i riti religiosi della Settimana Santa che coinvolgono tutti i quartieri storici di Cagliari.

Sono particolarmente seguiti ancora oggi la cerimonia  dello spostamento del Crocefisso dalla Cappella alla navata Sagrato, la domenica delle Palme, nella Chiesa di San Giovanni, nel popolare quartiere di Villanova,  le Processioni dei Misteri, la visita di Sant’ Efisio e dei fedeli ai Sepolcri  il giovedì, le  suggestive processioni del Venerdì e del Sabato organizzate dalle Confraternite della Solitudine ( Chiesa di San Giovanni) e del Santissimo Crocefisso ( Chiesa di San Giacomo) accompagnate dai canti  dei gruppi di cantori, l’incontro  tra Cristo risorto e la Madonna nelle varie Parrocchie  nella Domenica di Pasqua e infine il pellegrinaggio di Sant’Efisio il lunedì dell’Angelo nella Cattedrale.

Ma a fianco alla grande  partecipazione  della gente ai riti religiosi esiste ancora oggi , anche se  in parte logorata dell’imperante modernismo, una tradizione culinaria  popolare a cui molti cagliaritani, sopratutto gli anziani, non rinuncerebbero mai.

Il pranzo della Domenica di Pasqua rappresentava infatti, sopratutto fino agli anni sessanta del secolo passato,  un rito pagano irrinunciabile che permetteva di radunare intorno ad un tavolo imbandito intere famiglie, parentele varie e amici più stretti.

Il riferimento agli anni passati è doveroso in quanto oggi sono molto cambiate le abitudini e le occasioni di partecipare a pranzi in compagnia sono molto più frequenti. Per questa ragione i rituali degli anni passati sono ricordati da chi li ha vissuti con grande rimpianto.

Il menu rispecchiava le usanze di famiglia tramandate dai padri e dai nonni. Nel sacrosanto antipasto non poteva mancare la salsiccia e la “mustela” secca,  in qualche caso il prosciutto stagionato procurato, con difficoltà, tramite conoscenti del Centro Sardegna ( non essendo in vendita nelle botteghe), le olive, il formaggio fresco, semistagionato e stagionato e in qualche caso la bottarga..

Sui primi  vi era una scelta tra la pasta e le minestre, quasi sempre preferite. Era molto gradita la minestra “de casu friscu” preparata con il brodo del lesso di agnello, che veniva servito come secondo, col formaggio fresco lievemente inacidito, il soffritto,  lo zafferano e completato con pasta dal formato molto piccolo come i semini, le ave marie e la fregolina.

In tante case, sopratutto nelle famiglie dei pescatori, non poteva mancare la fregola con le arselle. La relativa ricetta comprendeva  oltre la fregola, che veniva quasi sempre  preparata alla vigilia  del pranzo nel rispetto  della tradizione,  le arselle, pescate direttamente nello stagno di Santa Gilla o acquistate da venditori di fiducia, estratto di pomodoro, sale, vino bianco, olio d’oliva, aglio e pomodoro a cui molti aggiungevano una punta di pepe.

Non mancavano in tante famiglie, spesso abbinati anche alla minestra, i ravioli (is culurgionis) riempiti  con ricotta e verdure varie, come spinaci o bietole, uova e  in qualche caso scorza di arancia o di limone e zucchero. Quest’ultima variante non era però gradita da   chi sosteneva che i ravioli essendo un primo non dovevano avere un sapore dolciastro. Erano molto diffusi anche i ravioli riempiti con formaggio fresco e prezzemolo e raramente  spinaci.

Is culirgionis venivano conditi con sugo ottenuto da conserva di pomodoro ( i pomodori freschi si trovavano solo durante l’estate), olio d’oliva, sale e soffritto  e pezzi abbondanti di carne di maiale. Molte padrone di casa erano solite usare, con un certo orgoglio, al posto della conserva bottiglie di sugo di pomodoro fresco preparato nell’estate precedente. Non mancavano  comunque in qualche casa anche i culirgiones ogliastrini. Sui ravioli, appena cotti, veniva versato il sugo  e una adeguata  quantità di pecorino  stagionato grattuggiato.

La preparazione dei ravioli nei giorni precedenti la festa, era lunga e coinvolgeva buona parte della famiglia. La padrona di casa sin dalla mattina cucinava le verdure, che il  marito di buon mattino aveva acquistato al mercato insieme alla ricotta o al formaggio. Nel pomeriggio  la donna impastava la farina ,  stendeva la sfoglia ricavata  sul tavolo, rigorosamente di legno, creando delle strisce di una decina di centimetri, a questo punto interveniva il marito che  deponeva sulla pasta, con  un cucchiaino a  distanze regolari e rispettando rigorosamente  la uniformità delle dosi il ripieno.  Ai figli era affidato il compito di ripiegare la sfoglia in modo da coprire il ripieno e con “sa serretta” dare una forma rettangolare o a semicerchio ai singoli ravioli che andavano poi con molta attenzione poggiati in un cesto grande “sa palina” sul cui fondo era stata cosparsa semola.  

Sui secondi dopo la carne lessa venivano serviti gli arrosti di carne, prevalentemente agnello, capretto, maialetto e pesce.

Nei quartieri storici di Cagliari era abbastanza frequente vedere  nelle strade, davanti alle porte delle case,   improvvisati barbecue sui quali venivano cucinati da cuochi molto attenti e specializzati carne e pesce. Si diffondeva  in tal modo un piacevole profumo che insieme a quello della salsa di pomodoro in preparazione “inondava” la mattina della Pasqua le strette vie dei quartieri della Marina, di Stampace,  Santa Avendrace e  Villanova.

La cottura  richiedeva un “cerimoniale” molto severo, che durava dalle due alle tre ore: la carne doveva essere tenuta, nella prima fase dell’operazione  distante dalla brace per poter essere asciugata e solo dopo avvicinata  progressivamente alla stessa. Operazione particolarmente delicata era il dosaggio del sale, al riguardo le teorie erano varie, alcuni sostenevano che andava cosparso sin dall’inizio e poi aggiunto nella fase finale  mentre altri, la maggior parte, solo nella parte terminale.

Ma la parte forse più delicata dell’impegno  de “s’arrostitori” era quella de su “stiddiu” che consisteva nel fare sciogliere un pezzo di lardo, opportunamente infiammato e tenuto da uno spiedo , sulla carne in cottura. Era necessario evitare che il grasso che scolava potesse bruciare l’arrosto.

Punto forte del lavoro era anche la preparazione de “sa trattalia e de sa cordula”  che richiedevano grandissima attenzione e lunghi tempi e che dovevano essere serviti ai commensali, sempre molto esigenti, molto calde e croccanti.

Anche per i pesci veniva seguito un complesso cerimoniale, le orate, le spigole, le seppie, i cefali  e le altre specie marine dovevano essere accuratamente preparate e affidate alle mani esperte di valenti cuochi, quasi sempre pescatori, che dovevano riuscire a conciliare i tempi del pranzo con quelli richiesti per la cottura e la successiva salamoia.

I secondi venivano accompagnati da abbondanti quantità di   finocchi, sedani, ravanelli e  lattuga.

Dopo la frutta rigorosamente di stagione altra parte  importante del pranzo di Pasqua erano i dolci con la immancabile presenza de “is Pardulas”, conosciute in italiano col nome di formagelle, che venivano e vengono tuttora preparate  con la ricotta o col formaggio fresco: esista al riguardo ancora oggi  una pluriennale disputa tra buongustai su quale tra i due tipi di ingredienti renda il dolce più gradevole.

Non potevano mancare ancora  i dolci tradizionali del Campidano come gli amaretti, is Gueffus,  is piricchitus, is pastissus e i bianchini che venivano naturalmente accompagnati dal moscato.

Al termine  non potevano mancare  i caffè e i savoiardi.

Va anche aggiunto che tutte le portate  erano accompagnata da copiose libagioni di vini  bianchi o rossi che venivano, per antica tradizione, offerti e portati dai vari ospiti.

I pranzi della domenica di Pasqua duravano dalle tre alle quattro ore circa  durante le quali i commensali, tutti ottimi buongustai, aggiornavano gli altri non solo sulle loro vicende recenti ma anche su quelle degli assenti, spesso però ricamandole abbondantemente.  

Quanto detto è la descrizione di un rituale di un tempo passato, oggi sicuramente superato dalle  possibilità non solo di incontrare molto spesso parenti e amici ma anche dalla necessità  di evitare la grande fatica di dover preparare tante pietanze, è infatti molto più semplice comprarle già pronte nelle rosticcerie o gustarle direttamente nei ristoranti. Resta comunque l’amara considerazione che il sapore e il profumo dei ravioli fatti in casa e degli arrosti è sfortunatamente solo un ricordo.

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