Sono un medico, ostetrico ginecologo. E sono un rotariano. Per scelta professionale e per vocazione sociale ho sempre coltivato la propensione al servizio verso gli altri. Da medico, impegnato nelle corsie, nelle sale operatorie, nelle sale parto e negli ambulatori cerco da oltre trent’anni di aiutare il prossimo nella cura delle malattie ginecologiche e nell’assistenza in uno dei momenti più significativi della vita di una donna e di un uomo: la nascita dei propri figli.
Da rotariano ho, da ancor prima (considerando gli anni trascorsi nei club giovanili organizzati dal Rotary: Interact e Rotaract), cercato di fare miei e di applicare nella mia vita di tutti i giorni gli ideali che sono propri del Rotary International. Un’associazione con una storia di 115 anni che riunisce uomini e donne in tutto il mondo che, con amicizia, integrità, diversità, leadership e service, perseguono il sogno di vedere un mondo dove le persone sono unite per passare all’azione e creare cambiamenti duraturi nelle comunità internazionali, nelle loro comunità e in se stessi. Dovete sapere che il Rotary, e proprio grazie all’iniziativa di un Rotary Club italiano, ha intrapreso la battaglia contro il virus della poliomielite nel 1985. E’ stata la prima organizzazione ad avere la visione di un mondo libero dalla polio!
Allora si contavano 350.000 casi all’anno (circa 1000 al giorno!) ed era endemica in più di 125 paesi. La polio è una malattia altamente infettiva che colpisce prevalentemente i bambini sotto i 5 anni di età, interessando il sistema nervoso. Nel giro di poche ore può causare la paralisi irreversibile soprattutto a livello degli arti inferiori. Tra coloro che presentano la paralisi circa il 10% va incontro alla morte. Non esiste una cura per questa malattia. Si può soltanto prevenirla con il vaccino che protegge i bambini per tutta la vita.
Il Rotary, affiancato dalla WHO, dall’UNICEF, da organizzazioni governative e supportato dalla Bill e Melinda Gates Foundation, si è posto l’ambizioso obiettivo di eradicare la polio dal mondo. Bill Gates ha affermatoche il Rotary è il cuore e l’anima della eradicazione della polio. Sarebbe la prima grave malattia debellata dopo il vaiolo. Per avere la certificazione di Polio Free World devono passare tre anni dalla rilevazione dell’ultimo caso. Oggi i casi di polio sono diminuiti del 99,9 % e i paesi endemici ora sono solamente il Pakistan e l’Afghanistan. L’ultimo caso registrato in Nigeria risale al 21 agosto 2016, per cui l’Africa nel 2019 è stata dichiarata continente Polio Free.
Il Rotary finora ha raccolto circa 2 miliardi di dollari. Ha mobilizzato oltre 6 miliardi di dollari di raccolta dalle pubbliche amministrazioni. Sono stati immunizzati tre miliardi di bambini (nel solo 2016 i vaccinati sono stati 450 milioni in 45 paesi). Per quest’opera umanitaria sono intervenuti diversi milioni di volontari, tra cui tantissimi soci del Rotary. E non pochi sono stati uccisi da chi si oppone alle vaccinazioni. Più di 16 milioni di persone sono state salvate dalla paralisi e 1,5 milioni di bambini dalla morte. Ma fino a che anche un solo bambino può contrarre la malattia, sono a rischio i bambini in tutto il mondo.
I dati più recenti della WHO purtroppo ci dicono che nel 2019 sono stati 176 i bambini infettati dal virus della polio, 147 in Pakistan e 29 in Afghanistan. E in questo primo scorcio del 2020 siamo già a 42 casi (39 e 3 rispettivamente).
Circa un anno fa, nella pianificazione del suo anno di Governatore del Distretto 2080 del Rotary, che territorialmente include i Rotary Club della Sardegna e del Lazio, il mio amico e collega Giulio Bicciolo volle pensare all’organizzazione di un gruppo di rotariani disponibili a far parte di un team che si recasse in India per partecipare attivamente al NID (National Immunisation Day) che ogni anno il Governo della più grande democrazia del mondo dedica alle vaccinazioni antipolio per raggiungere i bambini più sperduti nel suo immenso territorio.
Giulio mi chiese se fossi disponibile a partire. Non ebbi esitazioni. Da tanti anni avevo il desiderio di dedicare del tempo a iniziative umanitarie, approfittando del radicamento dell’organizzazione rotariana nel mondo. Ma per diversi motivi, soprattutto familiari, avevo rimandato. Ora, con i figli abbastanza grandi e con la comprensione di mia moglie, pediatra e rotariana, che avrebbe voluto tantissimo accompagnarmi in quest’avventura, e di mia mamma che sperava recedessi dalla mia idea, ma che essendo stata sposata per quasi cinquant’anni con un medico e avendomi trasmesso un carattere piuttosto determinato non poteva che accettare la mia scelta, decisi di partire. Il nostro viaggio era stato programmato per il mese di gennaio del 2020. Mai avremmo pensato che poco più di un mese più tardi le nostre vite sarebbero state stravolte in maniera totale proprio a causa di un virus, e che anche noi nel nostro occidente così evoluto e ricco ci saremmo trovati a combattere con pochissime, e spesso inefficaci, armi contro un nemico così piccolo e subdolo che solo quando avremo un vaccino potremo sperare di sconfiggere. Il nostro Team Leader Federico Bizzarri, professore ordinario di cardiochirurgia, era già stato nel 2019 in India per lo stesso motivo con un gruppo di rotariani olandesi. Del gruppo avrebbero fatto parte altri due rotariani, Lucia Viscio, imprenditrice, e Carlo Severa, geologo, nonché la moglie di Federico Loredana Del Prete, coordinatrice infermieristica. Forte della precedente esperienza, Federico aveva realizzato un programma fittissimo per la nostra settimana. Prenotati aerei (il diretto Roma Delhi con Alitalia), alberghi e trasporti interni, effettuate le vaccinazioni, non necessarie ma opportune, e ottenuto il visto eravamo pronti ad iniziare la nostra avventura.
Appuntamento a Fiumicino per il 15 gennaio. Bandiera nazionale e bandiera End Polio Now sciorinate ed emozionati come ragazzi in partenza per la gita scolastica ci si accinse alla partenza. Nel cuore della notte saremmo atterrati all’aeroporto internazionale Indira Ghandi di Delhi, pronti a immergerci in un mondo per quasi tutti noi completamente nuovo e sconosciuto, se non per quanto visto al cinema o letto nei libri di Salgari. Ma quello che avremmo vissuto in quella settimana non lo avremmo mai potuto immaginare!
Sapevo che l’aria della capitale dell’India non è famosa per la sua salubrità, ma appena usciti dall’aeroporto ci siamo calati in uno smog veramente inimmaginabile e in un traffico che a qualunque ora è a dir poco caotico. All’arrivo il nostro organizzatore locale, rotariano, ci aspettava con i due autisti che sarebbero stati le nostre ombre per tutto il viaggio, guidandoci e scortandoci con la massima attenzione. Poche ore di riposo in Hotel e poi subito pronti ad immergerci … nello smog e nel traffico.
Delhi è una città che conta più di sedici milioni di abitanti che si muovono vorticosamente come formiche impazzite. Con automobili, bus, motociclette, bici, carretti oppure a piedi, intorno alle nostre due auto potevamo vedere una umanità quanto mai variopinta ed eterogenea che rischiava ogni secondo di essere coinvolta in incidenti. Ma, con nostra meraviglia, si mostravano tutti abilissimi nel destreggiarsi senza paura e senza conseguenze in quel marasma, con l’incessante suono di clacson, trombette o fischietti ad accompagnare il traffico più allucinante che abbia mai visto. In confronto Napoli all’ora di punta poteva sembrare Stoccolma. E la caratteristica che più mi colpiva era l’assoluta imperturbabilità della gente e dei militari presenti a controllare.
La nostra prima giornata, così come sarebbe stato per l’ultima, era dedicata a visitare alcune mete turistiche. Il 16 gennaio era in programma la trasferta ad Agra per visitare il meraviglioso Taj Mahal, patrimonio dell’umanità dell’UNESCO e inserito tra le nuove sette meraviglie del mondo. Si tratta del Mausoleo che l’imperatore moghul Shah Jahan fece costruire nel 1632 in memoria dell’amatissima moglie Mumtaj Mahal, morta dando alla luce il quattordicesimo figlio dell’imperatore, e al centro del quale entrambi riposano il sonno eterno. Bellissima la descrizione data dal grande poeta indiano, premio Nobel nel 1913, Rabindranath Tagore: “Una lacrima di marmo ferma sulla guancia del tempo”.
Da Delhi la città di Agra (City of Love) dista 180 chilometri che abbiamo percorso in circa quattro ore. Smog a parte, la giornata era piuttosto nuvolosa e scura ma non appena vedemmo davanti ai nostri occhi il monumento fu come se una sferzata di luce ci avesse investito. E’ difficile esprimere le sensazioni che abbiamo provato. Un misto di meraviglia e di misticismo che la composta devozione degli indiani, che in gran numero ogni giorno vi si riversano, accresceva. I giardini curati, i colori degli abiti delle donne e dei bambini contrastavano con il bianco dei marmi, splendenti nonostante lo smog e il cielo minacciante pioggia. Un veloce pasto a base di pietanze tipiche e la visita ad un immenso emporio di bellissimi oggetti di artigianato concludevano la nostra visita ad Agra. Il lungo viaggio di ritorno a Delhi ci attendeva. Una notte ristoratrice era necessaria per affrontare la giornata successiva.
Nella mattinata abbiamo avuto l’opportunità di visitare tre luoghi significativi, certamente non turistici. Il primo è stato il Rotary Literacy Center, che i membri del Rotary Club Delhi South West hanno realizzato in un quartiere disagiato della capitale. Grazie ai fondi reperiti e all’impegno diretto di tanti volontari questa scuola, offrendo corsi di lingua inglese e di alfabetizzazione informatica, permette ogni anno a una trentina di ragazze e ragazzi di acquisire competenze e di aspirare ad un’occupazione in grado di dare da vivere a loro e alle loro famiglie.
Accolti come ospiti di riguardo (cosa che ci sarebbe capitato praticamente in ogni luogo dove saremmo andati) e segnati sulla fronte con il simbolo sacro per gli hindu del “Tilaka” o “Pundra”, che rappresenta l’occhio spirituale dell’individuo o terzo occhio, abbiamo potuto constatare la serietà dei ragazzi e la loro voglia di affrancarsi dalla vita misera cui sarebbero stati destinati. Mi hanno colpito delle massime che nelle aule definivano la filosofia della scuola. Massime che hanno una validità universale come rispettarsi l’un l’altro, fare sempre del proprio meglio, lavorare sodo ed incoraggiarsi reciprocamente perché parte di un team.
La seconda tappa ci ha permesso di conoscere un’altra realtà toccante: Suniye. Si tratta di una scuola dove si insegna il linguaggio ai bambini sordomuti. Anche qui il Rotary dà un grande aiuto, consentendo a dei bambini meravigliosi di superare, talvolta molto bene, un handicap che in una società come quella indiana non permetterebbe loro di avere un futuro. Vedere la gioia di questi bambini nel ricevere un modesto dono, un sorriso di persone sconosciute, e ai loro occhi così diverse, o un “cinque” è stato davvero commovente.
Nella nostra Italia bambini con queste patologie vengono operati e possono godere di efficaci tecniche di riabilitazione a carico del nostro sistema sanitario, ma in India solo pochi fortunati possono permettersi, ad esempio, un intervento di impianto cocleare. Grazie ad una colletta effettuata presso l’Ospedale di Latina abbiamo potuto dare un aiuto economico alle persone che con grande spirito umanitario mandano avanti questa lodevole iniziativa.
La terza tappa ci ha permesso di conoscere da vicino che cosa provoca la poliomielite. A Delhi è presente il St. Stephens Hospital, uno dei più antichi e grandi ospedali privati della città. Costruito da missionari cattolici nel 1885 ospita un reparto specializzato nella cura dei pazienti affetti da sequele della polio. Da sempre supportato dai Rotary club di Delhi e dai rotariani di tutto il mondo, l’ospedale si avvale nelle sue sale operatorie dell’opera del dottor Matthew Varghese, chirurgo ortopedico tanto valente quanto carismatico.
Il medico ci ha guidati mostrandoci ambulatori, sale operatorie, officine ortopediche e corsie. Incontrare persone sofferenti, in genere giovani, con deformità scheletriche mostruose ma speranzose di migliorare la loro vita grazie alle mani di quest’uomo eccezionale, è stato come proiettarsi in un mondo che le nostre genti hanno conosciuto diversi decenni fa, quando anche da noi la malattia imperversava. Eravamo già convinti che andare in India per vaccinare i bambini fosse una nobile azione, ma aver visto cosa comporta la mancata prevenzione ci ha dato una carica umana ancora maggiore.
Il dottor Varghese ci ha poi presentato una relazione sulla storia della polio in India e su quale impatto abbia avuto la sua eradicazione certificata nel 2011 ed attuata grazie all’impegno del Rotary.
Carichi di emozioni e di voglia di impegnarci ci accingemmo a lasciare Delhi per raggiungere la città di Moradabad dove avremmo iniziato la nostra “missione” di fighters against polio! Lasciammo la calma ovattata dell’ospedale e ci rituffammo nella bolgia del traffico. La città di Moradabad è la capitale della provincia del Nord, l’Uttar Pradesh, quinto stato dell’India per estensione ma primo per popolazione. A differenza della gran parte del Paese, questa provincia è abitata in prevalenza da musulmani. Avremmo percorso i circa 170 chilometri in quasi cinque ore! Il nostro fedele accompagnatore Lohit è riuscito a portarci sani e salvi alla meta.
Dopo una lunga e tumultuosa uscita dalla capitale, schivando come di consueto un incredibile numero di potenziali incidenti, raggiungemmo l’autostrada. Pensavamo finalmente di poter fare un tratto di strada tranquillo ma ci sbagliavamo. In India nelle autostrade circola di tutto, pedoni compresi. I salti di corsia e le inversioni e i lavori infiniti sono continui e un autista inesperto rischierebbe moltissimo. Tra gli ospiti della carreggiata è possibile incontrare diverse specie animali, compresi i macachi che nel tratto che passa al di sopra del fiume Gange sono un’attrazione turistica. Pensavo che Lohit avrebbe fatto staffetta con un altro autista per poter fare ritorno a Delhi, invece scoprimmo che sarebbe rimasto con noi fino all’ultimo nostro minuto in India, dormendo a bordo della mega Toyota che ogni mattina ci faceva trovare pulitissima e fornita di preziosissime bottiglie d’acqua Bisleri. Molti ricorderanno il liquore Ferro China Bisleri che il lombardo Felice Bisleri produceva e commercializzava in tutto il mondo. Ebbene, l’imprenditore inventò un metodo di depurazione ed imbottigliamento dell’acqua che poi cedette ad un indiano che detiene oggi il monopolio dell’acqua potabile in India, ma pochi sanno che il nome è appunto italiano.
Finalmente giunti all’Hotel Amara Gateway, venimmo accolti da tanti rotariani locali che cinsero il collo di tutti noi con collane di fiori profumatissimi riservandoci onori e attenzioni veramente inattesi. In albergo era già alloggiato da poche ore anche il gruppo di 17 rotariani olandesi che con noi avrebbero nei giorni successivi partecipato alla campagna vaccinale.
Dopo una veloce cena finalmente potevamo riposare. La mattina dopo avremmo potuto dare inizio allo scopo del nostro viaggio. In loco la nostra azione era stata programmata nei minimi dettagli dal Past Governor del locale Distretto Rotary Sudhir Gupta, avvocato e Presidente onorario del Moradabad Institute of Technology, la principale Università locale, ovviamente privata. Sudhir con i suoi collaboratori, fra i quali il suo figlioccio e allievo Nitin Rai Pal, ventiseienne praticante avvocato, avrebbero accompagnato durante le vaccinazioni il gruppo italiano e quello olandese. Nella prima giornata ci saremmo recati nelle scuole, nella seconda avremmo operato in sei booths lungo le strade, due per noi e quattro per gli olandesi, mentre nella terza le vaccinazioni sarebbero state effettuate door to door all’interno dei villaggi. Sabato 18 gennaio ci svegliammo tutti prestissimo e indossammo le maglie azzurre che, con i giacconi dello stesso colore, riportavano i loghi del Distretto 2080 del Rotary e della campagna End Polio Now, nonché il nostro Tricolore. Ci sentivamo orgogliosi di rappresentare il nostro Paese e il Rotary, portatori delle caratteristiche positive che rendono giustamente apprezzata l’Italia agli occhi del mondo. E lì gli occhi che ci avrebbero giudicato, guardandoci con speranza, erano quelli di tantissimi bambini.
Ci portarono in un quartiere periferico e ancor più povero della città.Un asilo ospitava circa 150 bambini in due grandi e fredde aule(non solo mancavano impianti di riscaldamento, mancavano direttamente le finestre…). Tutti ricchi di dignità e bellissimi. Quando entrammo si sedettero composti e pronti a ricevere le gocce per la vita.
Nel far uscire dalle boccette le due gocce che costituiscono la dose del vaccino orale ottenuto dal grande medico e filantropo Albert Sabin, polacco naturalizzato americano, socio rotariano, le nostre mani tremavano per l’emozione. Credo di aver provato un’emozione uguale solo quando ho assistito i primi parti. In un certo senso, similmente alla nascita, stavo dando loro la vita aiutandoli a prevenire una malattia che se li avesse colpiti avrebbe potuto non dar loro scampo. Dei semplici palloncini gonfiabili come dono scatenarono un’irrefrenabile e contagiosa voglia di giocare che ci coinvolse tutti.
Uscimmo dalla scuola leggeri, felici come boy scout dopo una buona azione. Non sapevamo che in fondo questi erano dei bambini fortunati rispetto a quelli che avremmo incontrato nei giorni successivi.Proseguimmo la giornata visitando altre scuole e vedendo tanti bei progetti realizzati dai Rotary Club con il supporto della Rotary Foundation. Con i rotariani australiani è stato realizzato un progetto per offrire gratuitamente visite mediche e distribuzione di farmaci con un Mobile Medical Van e il Free Medical Camp.
Bellissimo poi il progetto dei rotariani olandesi che ci accompagnavano e realizzato negli anni precedenti. Come si può ben immaginare l’acqua in questi villaggi è un bene preziosissimo e lo è ancor più l’acqua sanificata. Per questo motivo sono stati realizzati dei potabilizzatori e delle aree dove poter fruire dell’acqua pulita. Il “Clean water conserve water project” ci è stato presentato in due centri di aggregazione presenti nel villaggio. Ci attendeva una vera e propria moltitudine di bambini e di adulti, assiepati ovunque compresi i tetti. L’accoglienza era stata curata nei minimi particolari. Siamo entrati tra la folla plaudente, segnati in fronte con il Tilaka e omaggiati con le collane di fiori freschi, per essere poi fatti accomodare intorno ad un tavolo dove ci sarebbe stata offerta della frutta, acqua in bottiglia, Coca Cola, Fanta e l’immancabile tè al latte. Quest’ultimo almeno, venendo servito a temperature vulcaniche, poteva essere bevuto senza temere conseguenze gastroenteriche!
Spettacoli tradizionali con ragazze bravissime nel canto e nel ballo rappresentavano l’ulteriore omaggio ad ospiti di così tanto riguardo. In verità noi ci sentivamo un po’ in imbarazzo, pensando che eravamo solamente persone fortunate perché nate nella parte ricca della Terra e che ben pochi di loro avevano mai avuto la possibilità di assaggiare un bicchiere di Coca Cola.Ma non era possibile rifiutarsi perché avremmo offeso la loro sensibilità ed il buon cuore con cui volevano dirci grazie per quello che hanno avuto dal Rotary, e che per loro è davvero tanto. In poche ore davvero tantissime emozioni, e la consapevolezza che condizioni di vita come quelle che avevamo visto forse potevano caratterizzare i paesi più sperduti della Sardegna nel XIX secolo.
In serata la visita ad una fabbrica di lampade in ottone ci permetteva di cogliere altri aspetti della vita di quelle popolazioni. Le condizioni di lavoro dei poveri operai addetti alle varie fasi della produzione, lavorazione ed imballaggio dei manufatti erano a dir poco raccapriccianti. Orari di lavoro lunghissimi, illuminazione scarsissima, nessuno strumento di protezione come guanti o mascherine. La pelle dei visi dei poveretti addetti alla lucidatura dell’ottone era ormai diventata grigia. L’India sarà pura la più grande democrazia del mondo, ma forse bisogna intendersi meglio sul significato… Eravamo sconcertati.
La giornata era destinata a concludersi con una serata mondana. I soci dei Rotary Club di Moradabad con il Governatore Distrettuale ci aspettavano presso le sale dell’Università MIT. Accoglienza festosa, Tilaka giallo e spalmato su un’ampia zona della fronte, ennesima collana di fiori e posti di riguardo in prima fila. Lo speaker ci ha salutato ad uno ad uno e, dopo i saluti del Governatore indiano Gupta e del nostro Giulio Bicciolo, siamo stati invitati sul palco a cantare il nostro Inno Nazionale. Come ci siamo sentiti fieri!
Durante l’incontro potemmo gettare le basi di un progetto che realizzeremo con loro e con il contributo della Rotary Foundation. Ci è stato chiesto di aiutarli ad impiantare pannelli solari nelle scuole dei villaggi, in modo da offrire luce e riscaldamento. Viste le condizioni dei caseggiati dove vengono ospitati i bambini abbiamo aderito con tutto il cuore.
Omaggi per tutti, e da parte mia il piacere di donare delle pubblicazioni sulla Sardegna, orgoglioso di mostrare le bellezze della mia isola. Con una gustosa cena indiana consumata in piedi conversando piacevolmente con tante persone curiose di conoscerci, si concludeva una giornata veramente indimenticabile.
Era giunta la domenica, anche se da quando eravamo in India avevamo quasi perso la concezione del tempo, tante e incredibili erano le esperienze che stavamo vivendo.
Riempiti gli zaini di caramelle, pupazzetti e lecca-lecca trovammo il nostro fido Lohit che ci aspettava davanti all’Hotel. Con il giovane amico Nitin ci accompagnarono nel nostro booth, situato ai margini di una strada trafficatissima. Come si può vedere dall’immagine si trattava di una sorta di gazebo, nel quale tre volontari locali avevano sistemato i flaconcini del prezioso medicinale, contenuti all’interno di scatole termiche. Una ragazza avrebbe preso nota di quanti bambini avremmo vaccinato. Indossammo i gilet gialli che ci permettevano di essere riconosciuti nel nostro ruolo e i cappellini con la scritta “Keep India Polio Free” sotto il logo del Rotary e iniziammo la nostra azione. Nel nostro booth eravamo Lucia, Giulio ed io mentre Loredana, Federico e Carlo erano stati portati in un altro tratto della lunga strada, come pure i quattro gruppi di olandesi.La nostra presenza era stata preannunciata da un mezzo che con gli altoparlanti girava per avvisare la popolazione ed invitarla a recarsi con i propri figli fino a sei anni presso i punti di vaccinazione. Ad ogni bimbo vaccinato dovevamo marcare di viola l’unghia del mignolo sinistro, come segno dell’avvenuta somministrazione. Seguiva il dono di caramelle o piccoli regalini, cosa che creava intorno a noi capannelli di ragazzini che speravano di ottenere lo stesso trattamento barando sull’età.
All’inizio, quasi timidamente, aspettavamo che i bambini venissero portati da noi ma poi, sempre più carichi di entusiasmo e buona volontà, sprezzanti del pericolo iniziammo ad infilarci nel traffico e a fermare qualunque mezzo di trasporto a bordo del quale vedessimo dei bambini. L’effetto sorpresa funzionava, non dando agli adulti e agli autisti la possibilità di opporsi alla nostra bonaria insistenza. Solamente le donne talebane ci impedivano di procedere con la somministrazione del vaccino Sabin. Purtroppo sono convinte che noi, considerati pericolosi nemici, attraverso quelle gocce inoculiamo nei loro figli malattie per eliminarli! I volontari che ci assistevano all’inizio ci presero sicuramente per folli. Anche il buon Lohit, preoccupato per la nostra incolumità, si destò dal letargo ed uscì dalla Toyota per venire a controllarci.
Evidentemente il nostro desiderio di fare del bene era contagioso, dato che sia i volontari sia Lohit si diedero da fare per aiutarci fermando automobili, motocicli, carretti e gli innumerevoli Tuk-Tuk e facendo da interpreti facilitandoci il compito. Decidemmo che fosse giusto promuovere Lohit e demmo anche a lui il gilet per renderlo membro ufficiale della nostra delegazione. Lo avevamo gratificato moltissimo. Lui, esponente per la loro cultura di una casta inferiore, era stato elevato allo stesso rango degli illustri stranieri ai quali doveva offrire i suoi servizi! Credo che mai avesse provato un onore così grande. Da quel momento si sentì autorizzato a parlare di sé e della sua famiglia, mentre prima parlava solo per accogliere le nostre richieste e chiederci di cosa avessimo bisogno.
La mattinata era volata. In tre avevamo somministrato il vaccino a 480 bambini. Vennero Sudhir e Nitin per avvisarci che era giunto il momento di tornare in hotel e la cosa ci dispiacque. Avremmo potuto vaccinarne ancora tanti! Federico e Carlo, ma noi lo avremmo scoperto solo dopo, avevano ottenuto di restare ancora e poterono così raggiungere il numero di 625 dosi! Nel pomeriggio, durante un briefing con l’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Unicef ed esponenti del Governo, scoprimmo i numeri degli olandesi: in 17 ne avevano vaccinato 616. Provammo una malcelata soddisfazione quando nel pomeriggio li incontrammo. Il cuore e la capacità di adattarsi degli italiani erano stati determinanti per raggiungere un risultato che aveva colpito Sudhir e i nostri amici indiani. Da quel momento ci sentimmo ancora più apprezzati. L’incontro operativo, accompagnato dall’immancabile tè al latte bollente e da biscotti locali, ci è stato di grande utilità per approfondire aspetti epidemiologici e di politica sanitaria e per meglio comprendere dagli esperti l’utilità del nostro intervento.
Il giorno successivo la stampa locale avrebbe dato risalto al nostro incontro pubblicando proprio una foto nella quale era in primo piano la nostra delegazione.
A seguire, siamo stati invitati a visitare il MIT dove gli studenti hanno la possibilità di frequentare diversi corsi universitari incentrati sull’informatica e sull’ingegneria.
Una bellissima realtà fondata nel 1996 e ora diretta dal dottor Rohit Garg che ci ha accompagnato in tutto il campus. Una parentesi di ordine e buona organizzazione, circondata da un contesto totalmente differente. Una presentazione da parte degli studenti con esibizioni canore e di ballo ha concluso la visita.
Lunedì 20 gennaio la nostra delegazione era attesa dalla vaccinazione door to door in un piccolo e poverissimo villaggio nei dintorni di Moradabad. In questa terza giornata saremmo stati soli, senza gli amici olandesi. Cogliemmo una certa preoccupazione tra i nostri accompagnatori. Probabilmente c’era la possibilità di correre dei rischi. Sudhir ci aveva annunciato che stavolta non avrebbe potuto accompagnarci, ma aveva incaricato il nostro amico Nitin e altri tre uomini di sua fiducia di non lasciarci soli un attimo.
Una lunga trasferta in auto attraverso strade polverose e infangate, con fogne a cielo aperto dove razzolavano maiali, le immancabili mucche, macachi e, spesso bambini, osservati con sguardi torvi da uomini regolarmente sfaccendati, ci avrebbe condotto alla nostra meta.
Il villaggio, pur nella sua arretratezza, ci parve più accogliente. Intanto per la prima volta vedemmo persone intente a lavorare, chi facendo lavori di muratura, chi pulendo le strade (una pulizia sui generis ma meglio del niente abituale), chi producendo malta e mattoni e chi occupandosi del bestiame. La gente poi era incuriosita e non ci sembrava pericolosa, anzi molti uomini e ragazzi chiedevano di essere fotografati con noi, mentre le donne mostravano molta ritrosia. Le meno giovani si voltavano per non farsi riprendere, le ragazze invece sorridendo pudicamente acconsentivano. I bambini, appena ci videro, sperando di poter ricevere qualcosa, crearono subito un codazzo che ci inseguiva ovunque.
Erano lì ad attenderci tre donne che, su incarico del Governo, ci avrebbero accompagnato nelle case dove erano presenti neonati da sottoporre alla vaccinazione e per registrarle. L’accoglienza nelle case era generalmente cordiale. Erano regolarmente le donne ad aprire le porte o a scostare le tende che separavano i vari ambienti. Una struttura abitativa in genere accoglieva diverse persone, e comprendeva anche i ricoveri per gli animali e i laboratori dove gli uomini producevano vasellame in metallo. Tantissimi i neonati.
Dopo aver terminato i giri nelle case abbiamo avuto la possibilità di trattenerci ancora, familiarizzando con la gente e venendo letteralmente assaliti dai ragazzini ai quali abbiamo lasciato le ultime scorte di regalini ed anche gli zainetti. Il più scaltro era riuscito a sottrarre a Lucia, facendosi perdonare con un sorriso furbo, il cappellino rosso End Polio Now.
Prima di lasciare il villaggio abbiamo potuto siglare con enorme soddisfazione sul portoncino dell’ultima casa visitata “End Work by Rotary”! Inseguiti dai bambini fino all’ingresso in auto, ci siamo resi conto di aver lasciato in quel villaggio un pezzetto del nostro cuore.
L’ultima nostra giornata a Moradabad non poteva concludersi senza una visita al caotico mercato. Eravamo di sicuro gli unici occidentali e quindi tutti ci osservavano stupiti. Per la nostra sicurezza e per farci vedere quello che più poteva interessarci, i nostri amici rotariani si erano organizzati per accompagnarci e scortarci. Lasciate le automobili, inadatte alle strette stradine dove potevano passare solo mezzi di piccole dimensioni, siamo stati divisi su alcuni Tuk-Tuk. Ci sentivamo come all’interno di un film di 007, sfrecciando a bordo di questi modesti, ma lì fondamentali, mezzi di trasporto. Ci portarono a visitare i negozi di oggetti di ottone che si aprivano in un vicoletto. Molti di noi hanno acquistato alcuni pezzi molto belli e ad un prezzo davvero interessante. Divertente è la contrattazione per spuntare il prezzo più basso. Si riesce a scendere anche di molto e, siccome i mercanti non sono degli sprovveduti, con evidente soddisfazione di entrambe le parti! Camminando a piedi e in fila indiana (ovviamente, essendo in India…) potemmo vedere diverse rivendite di oggettistica varia, monili, vestiti e street food. Con molta generosità i nostri amici, tra i quali soprattutto il Direttore del MIT, ci vollero offrire assaggi di cibi difficilmente comprensibili e di dubbia igiene. Io mi limitai ad accettare l’ennesimo tè a 100 gradi, che almeno poteva essere il meno pericoloso.
Caratteristica comune alle botteghe era che i mercanti fossero rigorosamente scalzi e accovacciati o in piedi su un’area espositiva più alta rispetto al pavimento, nella quale mostravano le merci, poste sulle pareti tutte intorno a loro, mentre i clienti stavano in piedi o seduti nella restante parte del negozio per vedere e scegliere. In molti (eravamo con gli olandesi) eravamo interessati a vedere un negozio di saree, i tipici indumenti delle donne indiane. Pare che le origini di queste vesti risalgano addirittura al 100 a.C.! Ci portarono in uno dei più forniti, dove potemmo vederne una enorme quantità, da quelli monocromi ai più variopinti e ricchi. Il problema era comprendere come indossarli. Una delle nostre amiche olandesi si prestò a fungere da modella mentre una socia rotariana locale ci mostrò la tecnica. Ne acquistammo diversi, felici di portare a casa dei bellissimi manufatti da omaggiare alle nostre mogli. Erano difficilmente indossabili dalle nostre parti ma risultati molto graditi. Ripreso il Tuk-Tuk a sera tarda, rientrammo in albergo per poi andare con Nitin e uno dei bodyguards a gustare una cena tipica in un locale da loro suggerito.
La mattina del 21 gennaio nella hall dell’albergo trovammo tanti amici con i quali avevamo condiviso le bellissime ed emozionanti esperienze. Erano venuti a salutarci, augurandosi di rivederci per il prossimo NID. Da parte di tutti noi un grazie sincero per il loro aiuto, le attenzioni costanti e la conferma che quando cuore, cervello e braccia lavorano per il bene degli altri meno fortunati non esistono differenze di colore della pelle, cultura, religione, idee politiche ma solo un concetto: servire l’umanità.
Il nostro ultimo giorno in India ci avrebbe riportato a Delhi per visitare i due Templi più importanti prima di raggiungere l’aeroporto per il rientro in Italia. Si trattava del maestoso Tempio Hindu di Akshardham, da visitare scalzi (con la concessione di poter tenere le calze) e di quello Sikh Gurudwara Bangla Sahib. In questo è di rigore entrare scalzi (qui nemmeno le calze sono ammesse!) e con il capo coperto, ma la visita avrebbe rivelato un’atmosfera magica e spirituale che invitava alla pace e alla contemplazione. E’ un luogo dove chiunque, indipendentemente dalla religione professata, può condividere un pasto e può offrirsi volontario per aiutare a cucinare o a servire. Non vi poteva essere migliore conclusione per il nostro viaggio.
Rientrare a casa dopo aver vissuto una settimana insieme, così densa di eventi e di commozione non è stato facile. Tutti siamo consapevoli che ci farà sentire legati nella memoria da un filo indissolubile, ma anche che la nostra vita di tutti i giorni sarà diversa perché ciò che si è fatto, visto e condiviso ha cambiato le nostre vite, rafforzando la nostra consapevolezza che fare del bene faccia bene.