L’alimentazione è essenziale per la nostra stessa esistenza, e la sua condivisione riveste significati simbolici e relazionali per l’individuo e il gruppo sociale a cui appartiene che trascendono il semplice valore nutrizionale. Stando alle società più agiate, è un elemento che serve a valorizzare la convivialità, è espressione dell’identità della comunità, serve per trasferire conoscenza in quanto deposito di ricchezza culturale, ha un valore nel rapporto fra le generazioni come elemento di ri-costruzione di un tessuto sociale e, legato a piacevoli rituali, può essere un mezzo per recuperare la centralità delle persone e delle loro emozioni. Il cibo però può essere anche un temibile nemico personale. E’ su questo aspetto che ci concentriamo oggi, in occasione della Giornata per la Sensibilizzazione sui Disturbi del Comportamento Alimentare.
Nella nostra civiltà occidentale opulenta, basata sul consumismo e sull’esteriorità, qual è la valenza culturale del cibo?
Il cibo, da nutrimento è diventato comunicatore, anche di status se vogliamo. Negli ultimi dieci anni, si parla moltissimo di cucina nei media tradizionali e in quelli digital. Le nuove “rockstar” sono coloro che un tempo rimanevano relegati in cucina e ora (giustamente) diventano comunicatori, influencer e riconosciuti come artisti del gusto. Inoltre, nella società dei consumi, non ci rendiamo conto di quanto il neuromarketing sia importante ad esempio nei supermercati, luoghi deputati all’acquisto di massa di alimenti, dove i colori servono ad attirare l’attenzione e il posizionamento alle diverse altezze dei prodotti è gestito in base al cliente “target”. L’argomento è talmente vasto che non basterebbe lo spazio per parlarne nel dettaglio per ogni valore che il cibo è in grado di trasmetterci.
Riguardo ai disturbi alimentari, come si fa a distinguere tra comportamenti scorretti, dovuti magari a uno stile di vita frenetico e disordinato, e comportamenti patologici?
I comportamenti diventano patologici quando sono in grado di compromettere seriamente l’equilibrio psicofisico della persona. In sostanza, quando pensiamo costantemente al cibo e questo è in grado di modificare il nostro tono dell’umore, le nostre decisioni e di fornire il valore di noi stessi in base a quanto siamo in grado di controllarlo, ecco che ci troviamo di fronte ad un parametro importante. Quando cerchiamo in tutti i modi di controllare i nostri reali bisogni legati all’alimentazione nell’intento di controllare il corpo, pensando che tutto questo cambierà anche altri versanti delle nostre vite e investiamo troppo sul corpo (si parla di “iperinvestimento”) dimenticandoci di riposare se ci siamo allenati troppo o troppo a lungo. Oppure quando mettiamo in discussione le nostre relazioni perché, a causa di queste ossessioni e comportamenti ci auto-isoliamo, siamo di fronte ad un altro parametro. O ancora, e soprattutto, se pensiamo che siamo sempre troppo grassi, anche quando tutto e tutti intorno a noi ci indicano il contrario e restringiamo fortemente l’alimentazione o ne perdiamo il controllo, vediamo un altro parametro legato alla errata percezione del corpo. Infine, ma non ultimo, quando siamo vittime della fame nervosa, di abbuffate compulsive legate ad un ciclo di digiuno e abbuffata e conseguente senso di colpa o peggio, affoghiamo le emozioni difficili nel cibo per distrarci o per avere un temporaneo lenitivo da questa sofferenza, beh siamo di fronte ad un problema con l’alimentazione.
Lei è dottore in Neuroscienze e Scienze cognitive su “Attenzione Spaziale e Immagine Corporea nei Disturbi del Comportamento Alimentare”. Ci spiega cos’è il Dimorfismo Corporeo?
L’immagine corporea è l’immagine mentale del nostro corpo, ed è legata a una scoperta dei miei studi mediante uno strumento di videosimulazione digitale (il Body Image Revealer, che ho presentato anche a SuperQuark), che risponde principalmente a quattro domande: come penso di apparire, come vorrei apparire, come penso che gli altri mi vedano e come “sento” il mio corpo. Se queste quattro dimensioni sono molto simili, non ci troveremo di fronte ad una insoddisfazione corporea, che è una delle componenti essenziali di innesco dei disturbi alimentari. Se invece vi è una discrepanza fra una o più di queste dimensioni, possono esserci i presupposti per una forte sofferenza e iperinvestimento verso il corpo. Il disturbo di dismorfismo corporeo si caratterizza per la presenza di una preoccupazione eccessiva nei confronti di un difetto fisico inesistente o considerato trascurabile dalla maggior parte delle persone. Chi ne soffre tende a pensare ripetutamente all’imperfezione reale o immaginata nell’arco della giornata, a individuare e attuare sistemi per eliminarla o a nasconderla agli altri. Il passo verso un DOC, cioè un disturbo ossessivo compulsivo è breve.
Dove è da ricercarsi l’origine dell’anoressia e della bulimia?
Tutti i disturbi alimentari hanno a che vedere con problematiche multifattoriali ed esistono tre tipi di fattori: scatenanti, predisponenti e di mantenimento. C’è innanzitutto una componente di familiarità o ambientalità (dove si cresce, come si cresce, se si nasce in una famiglia in cui ‘il corpo’ è molto importante, se in casa si è sviliti a causa di alcuni ‘difetti’ estetici o al contrario si è importanti solo perché di bell’aspetto, l’ipercriticismo genitoriale percepito ecc.), che secondo gli studi sarebbe la componente scatenante nel 45-50% dei casi, soprattutto per quanto riguarda gli adolescenti. Ma vi sono anche componenti predisponenti/facilitanti (essere sottoposti a eventi stressanti, caratteristiche di personalità e di pensiero, soffrire di depressione, ecc.) che possono incidere maggiormente, ma non esclusivamente, in casi di persone adulte che non vivono più a stretto contatto con i parenti da molto tempo. Come detto, ci sono caratteristiche di personalità, con una base anche genetica, che possono spingere e predisporre una persona ad avvicinarsi più facilmente ai DCA, a gestire tutta una serie di problematiche psicologiche sul cibo e non in altri ambiti.
Che ruolo giocano i mass media e i canoni di bellezza che vengono proposti?
I canoni di bellezza occidentali ovviamente concorrono a rendere l’estetica di una persona con un peso patologicamente magro accettata e apprezzabile, quindi, in qualche modo, è come se ci fosse una ‘dispercezione’ corporea di massa. Ricordiamo che le donne occidentali hanno ciò che noi addetti ai lavori chiamiamo “normative discontent”, cioè, un’insoddisfazione comune, che ha come conseguenza il fatto che il 90% delle donne non si piaccia, e alla domanda “cosa desidereresti cambiare” risponderebbero che vorrebbero perdere almeno un paio di chili, indipendentemente dal peso di partenza. Pertanto, il fattore culturale, quindi un modello sociale che idolatra la magrezza e stigmatizza il sovrappeso e l’obesità, è un fattore da tenere debitamente in considerazione. Infatti, in terapia, ciò su cui si cerca di lavorare di più non è lo sviluppo di una forma di indifferenza nei confronti dei canoni di bellezza; bensì un ammorbidimento del pensiero rigido ed ossessivo del paziente e magari anche delle aspettative della famiglia che ne è alle spalle.
Quali sono le dinamiche familiari che possono innescare i disturbi alimentari?
Va da sé che le famiglie nelle quali non c’è molta comunicazione possano essere proprio quelle in cui questi disturbi trovano terreno fertile, perché ricordiamoci che dove c’è mancanza di comunicazione verbale c’è anche mancanza di comunicazione emotiva, e dove c’è mancanza di comunicazione emotiva ci sono elevate probabilità che per mettere le emozioni “sotto la sabbia” si sposti l’interesse sul cibo in modo ossessivo. S’immagina quindi che i nuclei famigliari in cui si manifestano queste malattie non abbiano di per sé delle dinamiche semplici e che ogni caso meriti una valutazione e cura che vada in parallelo rispetto alla persona che soffre di DCA.
Quando una persona si ammala, come è bene gestire la situazione in famiglia?
La prima cosa è non essere inquisitori: nel momento in cui un genitore si accorge che la propria figlia o il proprio figlio sta iniziando a soffrire di un disturbo del comportamento alimentare, dovrebbe cercare di non aggredire, ma piuttosto di avvicinarsi delicatamente e tentare di instaurare un dialogo. Basterebbe un “Come stai?” al posto di un “Cosa stai facendo?” per spostare l’attenzione sul risvolto emotivo, purché lo chieda con l’intento di voler ascoltare ed accogliere la risposta. Inoltre, mai fare battaglie davanti a un piatto, perché non servirà a nulla: non sarà un boccone di pasta in più a portare un reale cambiamento o alla risoluzione del problema; al contrario, farà sentire la persona in dovere di nascondere il suo stato d’animo e chiudersi ancora di più in se stessa. E poi, è fondamentale aprire un canale comunicativo che sia diretto e non ‘triangolato’: nelle famiglie di molti miei pazienti noto la possibilità di parlare con il papà o con la mamma tramite l’intervento dell’altro genitore o del fratello/sorella, ma non direttamente. Tutti i membri della famiglia dovrebbero essere coinvolti, senza mettere in campo i sensi di colpa e cercando di essere uniti per aiutare la persona colpita dalla malattia, perché in realtà il disturbo va a toccare tutto il nucleo famigliare. Ai fini di migliorare quest’aspetto, si potrebbe valutare l’intervento (sempre se il disturbo è di tipo clinico) di un centro specializzato o di un esperto per valutare quali siano le componenti della comunicazione famigliare che possono aver concorso a scatenare il disagio del o della giovane.
Lei utilizza molto le nuove tecnologie, e questo l’ha portata a sperimentare strade innovative e nuove dimensioni nella terapia dei disturbi legati all’alimentazione. Qual è esattamente il suo approccio terapeutico?
Oltre al metodo MindFoodNess specifico per questo tipo di disturbi di cui parlo nel mio libro omonimo, ho creato la Smart Therapy che, specialmente in questo periodo di DAD e Smart Working permette a distanza di avere maggiori risultati rispetto alle terapie cosiddette “classiche” di persona, dato che è un mix di tutto ciò che funziona, e soprattutto mette a disposizione del paziente molti strumenti dopo ogni singola seduta, aumentandone l’efficacia. Per capire meglio, rimando al link è www.smart-therapy.online, dove spiego meglio di cosa si tratti.
Lei ha parafrasato, nel titolo del suo libro, la Mindfulness, termine inglese che significa consapevolezza al qui e ora in modo non giudicante, secondo la definizione classica di Jon Kabat-Zinn. Come si può applicare la Mindfulness al cibo?
“Per MindFoodNess(da “mind” cioè mente, “food” cibo e “ness” l’essere in un certo modo e le abilità emotive) si intende una nuova pratica che aiuta a gestire meglio cibo, corpo ed emozioni. Si tratta di un percorso strutturato che unisce la mindfulness, ossia l’attenzione consapevole del “qui e ora”, con il mindful eating cioè l’alimentazione consapevole, il tutto attraverso l’ACT o Acceptance and Commitment Therapy, una terapia che incoraggia ad accettare le situazioni anziché controllarle o evitarle, e a modificare l’approccio alle emozioni negative. MindFoodNess è pensato per essere progressivo, passando dalla fase mind a quella food fino alla ness. Così facendo si impara a dare un ordine e a visualizzare il grande percorso che si ha davanti, fatto però di piccoli passi, per riprendere in mano la propria vita”.