Fino a qualche decennio fa era opinione comune fra tutti gli studiosi del settore che l’arrivo in Sardegna del vino, e di conseguenza della successiva coltivazione della vite, fosse da far risalire alla prima colonizzazione fenicia (IX-VIII sec. a.C.), e che la vitivinicoltura diffusa in scala più ampia datasse alla successiva dominazione cartaginese (VI sec. a.C.), e romana poi (III sec. a.C.).
Fortunate campagne di scavo, condotte con i più moderni sistemi di indagine archeologica, coadiuvate da sofisticate analisi scientifiche, quali esami al C14, pollinici e gascromatografici, nonché comparazioni con altri siti extra-insulari, le cui genti hanno avuto contatti nella preistoria e nella protostoria con le popolazioni dell’Isola, hanno consentito di spostare, almeno a partire dalla fine dell’Età del Bronzo Medio (XV sec. a.C.) fino agli inizi dell’Età del Bronzo Recente (XIV sec. a.C.), la certezza della presenza in Sardegna della vite e del vino.
A partire da tale periodo, infatti, si intensificano e si consolidano i rapporti bilaterali, già intrapresi in precedenza, col bacino orientale del Mediterraneo e in particolare col mondo miceneo. Compaiono nuove forme ceramiche più adatte alla conservazione e al trasporto di derrate, con le superfici esterne ed interne particolarmente trattate al fine di contenere sostanze liquide di pregio, quali olio d’oliva e vino, nonché recipienti per la mescita e per il consumo di bevande, come appunto il vino.
Sono significative, a questo proposito, le diverse bocchette “da vino”, provenienti da livelli certi del Bronzo Recente, in ceramica “grigia nuragica”, ritrovate in alcune località della Sardegna: dal Nuraghe Antigori di Sarroch, insieme a ceramiche micenee di importazione e di imitazione locale, dal complesso nuragico di Santu Pauli di Villamassargia, dalla grotta santuario di Pirosi – Su Benazzu di Santadi, dal Nuraghe Arrubiu di Orroli, e dal probabile scalo commerciale nuragico nel porto di Kommos, nelle coste meridionali dell’isola di Creta.
Vale qui la pena ricordare che la tradizione storiografica, sia pure in forma mitistorica, che in questo periodo ha la sua massima diffusione, narra che Aristeo, compagno di viaggio di Dedalo, introdusse in Sardegna la coltivazione della vite, dell’ulivo e l’allevamento delle api: la notizia di un evento realmente accaduto, traslata e ricordata attraverso la narrazione mitica. Una conferma di quanto fosse radicata questa credenza, tramandataci da Pausania e da altre fonti antiche greche e latine, è data dal ritrovamento in territorio di Oliena, in località “Sa ‘idda ‘e su medde” (il paese del miele), di un piccolo bronzo raffigurante Aristeo, col corpo totalmente ricoperto di api.
Nell’età del Bronzo Finale (XII-IX sec. a.C.), che vede anche la Civiltà Nuragica al suo massimo apogeo, la presenza della vitivinicoltura nell’isola si fa più puntuale ed è suffragata da analisi scientifiche incontrovertibili. La coltivazione della vite è un fatto ormai acquisito da gran tempo, con tutte le operazioni ad essa connesse, compresi anche tutti i processi di addomesticamento della “Vitis vinifera silvestris”, ampiamente diffusa in tutto il territorio dell’Isola.
Anche i contenitori “da vino” si modificano e si evolvono in forme tipiche della cultura sarda: “brocche askoidi” e piccoli “askos”, di squisita fattura, in ceramica e in bronzo, caratterizzeranno il repertorio vascolare sardo fino alla prima Età del Ferro ed oltre, e verranno adottate nelle prospicienti coste tirreniche presso le Culture Villanoviane prima, ed Etrusche poi (IX-VII sec. a.C.).
Questi recipienti cosi particolari sono diffusi in tutta l’isola in numerosissimi esemplari. Per quelli in ceramica è opportuno qui ricordarne alcuni fra i più significativi: l’askos di Monte Cao (Sorso), finemente decorata con motivi geometrici incisi e cerchielli impressi, dal Nuraghe “Lugherras” (Paulilatino), dal Nuraghe Genna Maria (Villanovaforru), dal Nuraghe S. Antine (Torralba), dal Nuraghe Arrubiu (Orroli) da cui proviene anche una singolarissima askos a ciambella, dal Nuraghe Su Nuraxi (Barumini), dal Villaggio nuragico di Monte Ollàdiri (Monastir), dal Nuraghe Li Pisciona (Arzachena), dai santuari nuragici di S. Anastasia (Sardara) e Sa sedda ‘e sos carros (Oliena), ecc.
Per i contenitori in bronzo sono da segnalare l’askos dal Nuraghe Ruiu di Buddusò e la straordinaria brocca askoide a due colli, uno dei quali è costituito da una grande protome bovina, proveniente dalla fonte sacra nuragica di Sa sedda ‘e sos carros di Oliena, che è anche un “unicum” di straordinario interesse, di tutta la bronzistica nuragica.
A testimonianza, infine, dei rapporti del mondo nuragico col bacino del Mediterraneo e oltre, sono le brocche askoidi, di produzione sarda presenti in diversi contesti extra-insulari: dalla Sicilia (Isola di Mozia-Marsala e da Dessueri-Monte Maio); dall’Isola di Creta (Tomba 2 della necropoli di Khaniale Tekke); dalla Tunisia (a Cartagine, forse da attribuire ad un insediamento precedente la fondazione fenicia della città); dalla penisola iberica (una brocca asconde nuragica è stata trovata di recente a Calle Canovas del Castello n. 38 a Cadice nel corso di uno scavo d’urgenza durante i lavori edili, dal Villaggio di Carambolo in Andalusia e dalle coste atlantiche alla foce del fiume Huelva, cioè l’antico insediamento di Tartesso).
A questi siti sono ovviamente da aggiungere i numerosissimi esemplari presenti, come si è detto, negli insediamenti etruschi della costa tirrenica della penisola italiana. E proprio da una brocca askoide versa il vino in una ciotola un personaggio seduto rappresentato in un bronzetto rinvenuto nel sacello del santuario di Monte Sirai di Carbonia (VIII-VII sec. a. C.).
Sempre più numerose sono, invece, le testimonianze dirette della presenza della vite e del vino in numerosi contesti nuragici isolani. Vinaccioli carbonizzati provengono dal Nuraghe Genna Maria di Villanovaforru e dal Nuraghe Duos Nuraghes di Borre, mentre alcuni acini carbonizzati sono stati di recenti ritrovati nella “Capanna n. 5” presso il Nuraghe Adoni di Villanovatulo, in uno strato datato con certezza alle fasi iniziali dell’Età del Bronzo Finale (XII sec. a.C.) tempo fa nel corso si lavori lungo la strada tra la Madonna del Rimedio alla periferia di Oristano e Torre Grande di Cabras, in località Sa Osa è stato messo in luce un insediamento prenuragico e nuragico. In livelli del Bronzo medio e recente (1600-1200 a.C.) è venuta alla luce una eccezionale quantità di vinaccioli unitamente a semi di fichi in straordinario stato di conservazione, che consentirà, nel prossimo futuro, l’esame del DNA al fine di poter determinare le specie di appartenenza.
Altri ritrovamenti similari sono noti ma ancora in corso di pubblicazione. Il più recente di questi risale ad appena alcuni giorni fa. Nel corso di uno scavo archeologico, ancora in atto, in territorio di Santadi, nel Sulcis – Iglesiente. E’ stata rinvenuta una notevole quantità di cereali in livelli certi di Età Nuragica (1300-900 a.C.): orzo, grano, fave, ceci ma anche vinaccioli e noccioli di olive.
Nel complesso nuragico di Bau Nuraxi di Triei, il località “Talavè”, ancora oggi a grande vocazione vitivinicola, nel vano n. 7, situato all’interno dell’antemurale, da un livello datato al C14 intorno al 1000 a.C., proviene una grande brocca askoide in frammenti, dalla superficie esterna accuratamente dipinta di rosso.
Un attento esame gascromatografico, eseguito sui frammenti ha accertato la presenza di acido tartarico e che quindi il recipiente aveva contenuto del vino. L’esame pollinico dello stesso livello ha accertato la presenza, oltre che di differenti specie arboree, arbustive ed erbacee, anche di pollini di “Vitis vinifera sativa”, quindi domestica. Nei vari ambienti dello stesso complesso, in una fase di riutilizzo in Età Romana imperiale e tardo antica, sono state rinvenute decine di anfore vinarie da trasporto: una sorta di deposito- cantina di una probabile villa rustica che doveva sorgere nelle immediate vicinanze.
A riprova della continuità di coltura della vite nella zona per alcuni millenni, è opportuno riportare la voce di un registro delle spese dell’Archivio Vaticano, dei primi anni del ‘600, in cui è registrato l’acquisto di vino bianco di Talavè del villaggio di Triei. Dal nuraghe Funtana di Ittireddu provengono due brocche askoidi, di cui una frammentaria contenente sul fondo una massa violacea di natura imprecisata. L’esame gascromatografico recentemente effettuato in ambedue i recipienti ha evidenziato anche in essi la presenza di acido tartarico e di conseguenza si tratta di contenitori usati per contenere e per la mescita del vino.
Allo stato attuale delle conoscenze non si hanno elementi certi riferibili ad attrezzature per la vinificazione in Età Nuragica, se si esclude il controverso torchio del villaggio nuragico di Monte Zara di Monastir, per quanto, i numerosi cosiddetti “pressoi” in pietra, di uso incerto, presenti in tanti siti, possono essere stati utilizzati per la pigiatura dell’uva. La presenza dell’uva e del vino è invece ben documentata in Età Fenicio-Punica dalla grandissima quantità di anfore vinarie da trasporto e recipienti di pregio in ceramica fine da mensa, atti al servizio e alla libagione. Allo stesso periodo risale anche una spiana fittile con impresse sulla superficie le impronte di vinaccioli. Nel villaggio nuragico di Sant’Imbenia nella baia di Porto Conte ad Alghero, divenuto col tempo emporio fenicio e greco-euboico, è documentata la produzione di anfore vinarie da trasporto, denominate “ZitA” (Zentralitalische Anphoren), di foggia orientale, ma di argilla locale, la cui presenza è stata accertata in tutto il Tirreno, nell’Italia Centrale, a Cartagine e nella Penisola Iberica a Toscanos e nel Castello di Dona Blanca di Cadice nella costa atlantica (X-IX sec. a.C.).
Questi contenitori dalla capienza tra i 20 e i 25 litri dovettero essere considerati particolarmente adatti alla conservazione e al trasporto del vino, visto il vasto orizzonte di diffusione di questa forma ceramica così particolare. La recente identificazione di anfore di tipo “ZitA” nel rione di “Dorimannu”, nell’abitato di Irgoli, sotto le cui abitazioni è presente un esteso abitato nuragico, e nel territorio di Posada, attesta la presenza di questi recipienti anche nelle coste orientali dell’Isola e spiega quindi la diffusione di questi contenitori lungo le coste del mar Tirreno.
Appare logico supporre che, se la maggior parte delle anfore da trasporto del tipo “ZitA”, presenti nel bacino del Mediterraneo occidentale erano sarde anche il loro contenuto, cioè il vino, prodotto nell’isola, raggiungesse i mercati iberici e nord-africani nella piena Età del Ferro: la più antica testimonianza, quindi, di una grande attività vitivinicola in Sardegna nei primi secoli del primo millennio a.C. e della commercializzazione del vino, quale prodotto di pregio, al di fuori dell’Isola! Le attrezzature per la vinificazione sono, invece ben documentate per quanto concerne il periodo romano.
Un ambiente per la vinificazione è presente nella fattoria romana di S’Imbanconadu presso Olbia, recentemente riportata alla luce. Due laboratori enologici in eccezionale stato di conservazione, con vasche per la pigiatura, bacili, basi e contrappesi dei torchi, nonché recipienti di vario uso, in ceramica e vetro, erano presenti nei livelli di riutilizzazione degli spazi in Età Romana (I sec. a.C. – V sec. d.C.), nel grande complesso nuragico di Nuraghe Arrubiu di Orroli. Lo scavo ha permesso, attraverso il clivaggio della terra contenuta nelle vasche, di recuperare una certa quantità di vinaccioli carbonizzati. L’esame di questi ultimi, effettuati in tre diversi laboratori, in Italia e all’estero, sono stati concordi nello stabilire l’appartenenza degli stessi ad un vitigno ancora coltivato nell’isola, denominato a seconda delle diverse località “Bovale sardo, Muristellu”, ecc.
Al fine di poter proseguire l’indagine archeologica nei livelli sottostanti, i due impianti sono stati smontati e accuratamente ricostruiti all’interno della recinzione moderna.
Resta ancora da segnalare la presenza nel probabile santuario nuragico-romano in località “Urulu” di Orgosolo, di alcuni piccoli attingiti (simpula) in lamina bronzea, il cui uso non può che essere stato che quello di “taste-vìn” “ante litteram”. Da questo breve excursus appare evidente e scientificamente provata la presenza della vite e del vino in Sardegna, almeno a partire dalla metà del secondo millennio a.C. Nulla è dato sapere per i periodi precedenti, anche se le culture preistoriche sarde, avendo avuto rapporti con popolazioni che già conoscevano la preziosa bevanda, derivata dal frutto della vite, potrebbero aver appreso la tecnologia relativa all’addomesticamento di specie selvatiche, alla coltivazione e alla vinificazione. E’ utile comunque ricordare che in archeologia, assai spesso, l’assenza di notizie è dovuta principalmente a carenza di ricerche e che d’improvviso, nuove scoperte portano al ribaltamento di teorie o di posizioni preconcette. Spetta ora agli specialisti del settore stabilire quali rapporti e parentele siano intercorsi tra i vitigni documentati per il passato e le varie “Cultivar” oggi presenti nell’isola, che è ora, più che mai, come fu definita in passato, “Sardinia Insula Vini”