A Sardara nel ’43 durante la guerra_di Gigi Abis

All’interno di un piccolo scrigno dalle pareti impenetrabili, (nella memoria?; nel cuore?) vengono gelosamente conservati i ricordi.

Alcuni di essi, però, nel tempo, si perdono. Altri sbiadiscono, diventano sfumati, meno comprensibili. Come le immagini di un acquerello dai colori tenui e sovrapposti. Dipinte da un pittore dalle mani tremanti ed indecise, dove le forme s’intrecciano, si rincorrono e si sovrappongono tra loro, in un gioco di forme indefinite. Mentre altri ancora, si serbano straordinariamente vividi.

Ma quali e perché alcuni si conservano ed altri si dimenticano?

Secondo uno studio effettuato da Freud, la “vividezza” di alcuni ricordi che emergono sin dal tempo dalla prima infanzia, non conterrebbero elementi tali da giustificarne la conservazione. Al contrario di altri che, anche se più significativamente ricchi di contenuti, sono stati completamente dimenticati.

A conforto di questa sua teoria, Egli sosteneva la tesi secondo la quale, nella memoria, rimarrebbero i ricordi, definiti di “copertura”, i quali non sarebbero altro se non una parte di un ricordo molto più “ampio”, da cui la parte emotivamente più significativa è stata rimossa.

La formulazione di questi principi, spiegherebbe il motivo per cui, un fatto accaduto sessantanni fa, (di copertura?), verificatosi durante gli eventi drammatici dell’ultima guerra mondiale, (ricordo ampio?), al contrario dello stesso, rimane, ancora oggi, straordinariamente vivo nella mia memoria.

Correva l’anno 1943. Attorno all’abitato di Sardara, nelle campagne desolatamente abbandonate a causa dell’assenza di uomini validi in grado di lavorare, perché tutti richiamati alle armi, vennero installati numerosi accampamenti militari tedeschi.

In questi luoghi, vinta la comprensibile iniziale diffidenza, ci si recava per barattare uova e pane di grano duro, cotto nei forni a legna delle vecchie case contadine, per tabacco e qualche scampolo di tela, (per confezionare abiti da lavoro) proveniente dalle vecchie tende da campo oramai in disuso.

Fu durante una di queste visite che, mentre mi avvicinavo ad un accampamento posto all’ombra di un vecchio olivete, mi ritrovai di fronte ad uno spettacolo incredibile.

Legato ad un grosso tronco cavo di un ulivo secolare, un giovane biondo, completamente nudo, e con la testa penzoloni come Gesù Cristo sulla croce, aspettava, probabilmente, di tirare l’ultimo respiro. Anzi, a tener conto dell’immobilità del suo corpo, dedussi che forse era già morto.

Spinto dalla incosciente curiosità giovanile, ma con tutte le cautele che il caso, comprensibilmente, richiedeva, mi avvicinai lentamente al mal capitato. Sino a quando, giunto a distanza ravvicinata, non mi accorsi, con stupore, che l’intero corpo era cosparso di un leggero strato di una sostanza di colore arancio, e che mosche ed insetti vari, convenuti a migliaia, attirati certamente dal dolce sapore di quello che sembrava essere marmellata, lo stavano letteralmente divorando.

Istintivamente allungai una mano per allontanare dal viso alcune vespe che stavano rumorosamente banchettando. Dalla palpebra rigonfia dell’occhio sinistro, soltanto una vespina gialla abbandonò il pasto, infastidita. Ma il deciso movimento della mia mano, determinò in lui una leggera reazione, perché quell’occhio appena liberato dall’insetto, si dischiuse lentamente, sino a spalancarsi del tutto per la meraviglia e l’incredulità di trovarsi davanti, e in un campo militare, un ragazzino di appena nove anni. Il fatto che avesse aperto un occhio mi rasserenò. Era la prova che morto non era.

Avrei voluto continuare nell’opera di allontanamento degli altri insetti affamati, se un grido fortemente gutturale, dal significato a me totalmente sconosciuto, non mi avesse fermato la mano a mezz’aria. Mi voltai di scatto, e notai che un uomo grande e grosso, con i capelli tagliati all’Umberto e con delle strisce scure sulle maniche corte della camicia di colore kaki, si avvicinava velocemente. Non ci volle molto per capire che il destinatario di quelle invettive era il sottoscritto, per cui, con tutta la velocità che le mie povere gambe potevano sviluppare, mi portai fuori dalla portata dei calci che quell’antipatico graduato aveva in animo di elargire gratuitamente.

Quando considerai che la distanza interposta col graduato mi garantiva la reale possibilità di non subire danni corporei, sostai dietro un cespuglio, per osservare, non visto, gli eventuali sviluppi di quell’incredibile situazione.

Il graduato si avvicinò a quel povero diavolo e, borbottando chissà cosa, dopo averlo slegato dall’albero e adagiato supino ai piedi di esso, gli sollevò la testa bruscamente e gli rovesciò addosso un secchio di tela incerata colmo d’acqua fresca che, nel frattempo, si era fatto portare da un suo subalterno. Quel poveraccio, che sembrava proprio morto, all’impatto improvviso con l’acqua, scattò in piedi come se lo avesse morso una tarantola indemoniata. Al che, i due in divisa, scoppiarono in una fragorosa e prolungata risata.

Anche il sottoscritto, che da dietro il cespuglio fitto di lentischi aveva seguito con apprensione, ma anche con grande curiosità, l’evolversi della situazione, si rasserenò, e gioì percome finì l’avventura di quel giovane militare dislocato in terra straniera.

In seguito si venne a conoscenza del fatto che, quel mal capitato ragazzo, in quella posizione, stava scontando una punizione che il comandante del campo gli aveva comminato perché trovato in fragranza di reato, mentre rubava un grappolo d’uva da un vicino vigneto.

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