Il comune minerario di Arbus, dopo il crollo delle miniere tenta una nuova economia puntando per buona parte dell’anno sul turismo. Ma, come molti comuni sardi detentori di un vasto patrimonio naturalistico, non è in grado, per le insufficienti disponibilità economiche, di infrastrutturare la preziosa risorsa perché possa produrre maggior reddito ed occupazione. Una sofferenza in parte attenuta dall’iniziativa dei suoi abitanti, che si spendono, pur fra mille difficoltà, nel supportare l’attuale flusso turistico con proprie iniziative imprenditoriali legate ai servizi ed all’accoglienza. La presenza turistica si concentra prevalentemente nel periodo estivo, ma l’abnegazione di diversi arburesi ha permesso di insediare importanti istituzioni nell’abitato, nel tentativo di attrarli tutto l’anno e far loro conoscere la storia e la cultura del territorio. Le proposte della comunità arburese risultano interessanti per gli ospiti, ma anche per la stessa comunità, che al di là dell’economia che possono sviluppare, rappresentano un valido stimolo per le nuove generazioni, in quanto danno loro il senso dell’appartenenza e la forza per non abbandonare il luogo natio, contrastando il pericoloso tarlo dello spopolamento.
Fra le diverse iniziative è interessante il museo del rag. Antonio Corda, che di recente ha supportato l’ultimo mio lavoro dedicato al Monte di Soccorso di Arbus, di prossima pubblicazione.
Il rag. Antonio ha sentito il bisogno di contribuire, interamente a sue spese, alla raccolta, tutela e custodia della memoria storica contadina ed artigianale arburese, dando vita al “Museo Antonio Corda – Arti e Mestieri Antichi della Sardegna”, con l’acronimo AMAS. Non so se sia una coincidenza o una voluta costruzione, perché il termine richiama il francese “amas” che significa ammasso, mucchio, cumulo. La frase “Et il ya de milliers de galaxie dan cet amas” (Ci sono migliaia di galassie in questo ammasso), mi pare possa riassumere con efficacia il certosino lavoro svolto, ordinando dentro un antico complesso abitativo cadente ed efficacemente recuperato, esso stesso testimone in alcuni scorci della storia dei reperti che accoglie, le galassie del mondo contadino, pastorale ed artigianale dell’800 arburese e sardo in generale.
La collezione narra di ben 50 mestieri della nostra isola ed è stata dichiarata di interesse culturale e di importante interesse storico-artistico e demoetnoantropologico dalla Soprintendenza Archeologica Belle Arti e Paesaggio per la città metropolitana di Cagliari e le Province di Oristano e Sud Sardegna e dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali e Turismo.
Immergersi nelle sue sale è un viaggio nel tempo, come per esempio, fermarsi nello spazio che accoglie il carro a buoi con le ruote piene e gli strumenti della sua composizione, con gli animali uniti attraverso il giogo costituivano un importante strumento di lavoro e di trasporto, fondamentale per raggiungere i territori più distante dall’abitato.
Ancora oggi sono diversi gli allevatori arburesi che curano e allevano gli splendidi animali.
Non meno interessanti sono gli antichi addobbi che ornavano i buoi quando partecipavano alle sagre paesane come trainatori del cocchio. Ad Arbus si ripete ancora oggi la lunga processione che accompagna, per 34 km, Sant’Antonio da Padova (13 Giugno) nella sua chiesa del borgo sin dal lontano 1694. Un importante appuntamento ove è possibile ammirare non solo i buoi impegnati ed elegantemente addobbati nel traino del cocchio, ma anche tutti gli altri bardati a festa nel traino de Is traccas. Carri che oggi potremo definire le “roulotte” del tempo, necessari per trasportare le masserizie e gli alimenti, nonché giaciglio necessario per trascorrere i tre giorni di festa lontani dalle comodità della propria casa. Per l’occasione i carri vengono ancora oggi ricoperti a tunnel, con preziose lenzuola, copriletto o tovaglie bianche finemente ricamate ed intercalate con ulteriori elementi di arredo, come cuscini, asciugamani, scendiletto o da antichi arazzi, frutto dell’opera femminile al telaio domestico.
Un mondo contadino di festa e lavoro che ancora si respira osservando gli antichi aratri con la punta di ferro, che a mala pena riuscivano a scalfire il terreno, per passare poi a quelli in ferro con il così detto voltaorecchio, da noi detto S’orbàda, che affondava meglio sul terreno creando uno strato più profondo di substrato dove le leguminose e cereali affondavano meglio le loro radici trovando migliore alimentazione.
Non meno coinvolgente è sostare nell’angolo dove il grano una volta mietuto veniva trebbiato e poi separato nell’aia dalle rachidi e dai glumi (stelo e avvolgimento dei grani), con le pale in legno e con i setacci gestiti con maestria dalle donne, capaci di interagire con movimenti decisi e coordinati con il vento (Bentuài), per separare i chicchi dal resto della spiga.
Il tuffarsi nel passato con a disposizione gli strumenti d’uso quotidiano ci permette di rivivere sensazioni e momenti vissuti dai nostri padri, come il soffermarsi nella sezione dei pesi e misure, che richiamano il vociare di uomini e donne intenti a quantificare il grano, le fave o i legumi in genere da vendere o da restituire al Monte di Soccorso, che a suo tempo aveva fornito i grani per la semina.
Un mondo contadino in simbiosi con quello domestico, che ricorda, per esempio, le promesse spose intente a preparare il proprio corredo in parte prodotto al telaio, e del quale è possibile ammirarne uno splendido esempio con la raccolta di antichi capi.
Non meno importante era “Su stresciu de fêu”, realizzato con l’aiuto dei padri e costituito dall’insieme dei recipienti realizzati con gli steli del fieno per diverse attività domestiche. Nella casa, anche se molto spartana, non mancavano le meravigliose cassapanche intarsiate e decorate, che custodivano i cambi stagionali delle coperte e delle lenzuola e che possiamo ammirare nel museo.
Si potrebbe continuare ancora a lungo, narrando delle botteghe artigiane presenti nelle diverse sezioni, come l’angolo del fabbro ferraio, che preparava tantissimi strumenti da lavoro ed i variegati marchi a fuoco con i quali gli allevatori segnavano il propio bestiame, ma non è giusto togliere la curiosità ai prossimi visitatori, perché c’è tanto da vedere ed apprendere.
Un plauso quindi al rag. Antonio Corda, perché con la sua opera, segno d’amore per la storia del suo paese e della Sardegna, offre a tutti gli arburesi, ma non solo, uno straordinario strumento culturale utile al difficile tentativo di riconversione economica, nonché un’importante opportunità perché dal passato è possibile trarre motivo per un futuro da vivere nella comunità di cui andar fieri.