I padroni del latte_di Michele Pio Ledda

Mi torna in mente una poesia di Dylan Thomas dalla quale cerchiamo di inoltrarci adesso, che tutto si è fermato, all’interno di una cerimonia celebrata nei mesi scorsi nelle strade della Sardegna. Abbiamo visto il latte scorrere come sangue, il bianco cambiare il colore all’asfalto e loro, i sacerdoti, sacrificare questo liquido sacro a un dio ingrato che rifiutava e irrideva altezzoso, il loro sacrificio. Questi, che molti chiamano pastori ed altri allevatori, hanno celebrato un rito antico svuotando i loro tophet di plastica ed alluminio sui cimiteri aperti dei paesi, hanno celebrato la loro messa bianca pregando con rabbia, supplicando con collera, gli dei chiusi nei loro altari che volgevano altrove il loro sguardo. Come l’acqua il bianco liquido cercava una via per arrivare oltre il mare. Cercava, risalendo le strade e i viottoli di trovare quel varco che avrebbe permesso di ricongiungersi, come una preghiera comune, agli altri fiumi che percorrono i martoriati campi della nostra terra cercando di sfuggire alle unghie feroci della Madre.

Invano hanno pregato, inginocchiati e prostrati, inutilmente hanno implorato e maledetto che i signori dei cieli accettassero la loro offerta. Si è fermato stanco quel sangue bianco, si è gelato come neve, si è trasformato in malta per la pietra da poggiare sopra altri antichi muri. Come scaltri mercanti fenici sono scesi dalle loro navi gli dei, sulla spiaggia hanno valutato le offerte e senza nulla offrire in cambio sono tornati nelle loro navi. Sapevano cosa fare, soprattutto cosa non fare. Povera l’offerta, niente porpora, vetro  e avorio in cambio della loro carne, nessun baratto. Guardavano dai loro scafi gli indigeni aumentare la loro offerta, certi che avrebbero aumentato ancora, consci e tronfi del saperli deboli, indifesi e disuniti, sicuri che presto sarebbero stati in grado di espugnare il loro orgoglio, di frantumare le loro difese. Sicuri che avrebbero aggiunto ancora qualcosa fino a soddisfare le loro voraci richieste.

Ed ancora, con una millenaria pazienza nuragica, hanno aumentato il loro tributo gli indigeni, ma, più latte versavano e meno erano forti le loro difese perché più aumentava l’offerta più diminuiva il loro peso. La loro debolezza era la forza degli altri e sulla sabbia d’asfalto il latte diventava polvere che il vento disperdeva. Dai loro legni romani i proconsoli guardavano e ridevano, sbeffeggiavano e sapevano che bastava aspettare per dare ragione al tempo che batteva inesorabile dalla loro parte. Divide et impera era scritto sulle spade, divide et impera era scritto nelle bandiere che sventolavano senza vento perché a loro bastava il respiro per sfidare il cielo.

Sotto il bosco di latte, sopra le pianure e le colline, dentro gli ovili di paglia metallo e cemento il sangue bianco cercava di uscire dalle martoriate vene di un corpo sfinito. Ma ancora non bastava, i sacerdoti indugiano nel tempio, occorre un ultimo sacrifico, si dicono, perché non sia la lama del dio  a recidere l’ultima difesa, l’ultimo baluardo che li separa dalla notte. Così, alla fine, quando tutto finisce eccoli mentre tagliano le loro arterie e lasciano defluire il liquido, eccoli mentre offrono i loro stessi corpi, il tributo finale. Dai loro legni italici gli dei guardano e osservano e brindano compiaciuti e finalmente si danno ai dannati ora che hanno la forza di accettare lo scambio.

Il mare orfano d’azzurro è bianco come un alba, il latte ha il colore della notte, le stelle, un giuramento violato.

©Sardegnatavola

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