Da dove arrivarono gli antichi abitatori della Sardegna? Provenivano dalle coste del Medio Oriente, oppure dalla penisola iberica o, ancora, dall’Africa mediterranea?
Difficile dirlo. Ancora oggi non è dato sapere con assoluta certezza come e quando abbia avuto inizio il popolamento della Sardegna. Tuttavia, negli ultimi decenni, le indagini condotte attraverso l’esame del Dna hanno aperto agli studiosi nuove strade ed oggi l’archeologia e l’antropologia dispongono di indicazioni preziose sulle origini dei sardi.
Tra non molto, proprio con l’ausilio della genetica, potremo essere in grado di sfilare il sottile velo che avvolge la nostra preistoria. Recenti studi attestano che in Sardegna l’espansione demografica si sarebbe verificata – con molta probabilità – nel paleolitico, in un periodo compreso all’incirca tra 27 mila e 78 mila anni la, allorché l’Isola costituiva un unico grande blocco con la Corsica.
Era in atto la glaciazione wurmiana e il livello del mare – notevolmente più basso rispetto all’attuale – aveva permesso la formazione di una sorta di ponte tra il blocco sardo-corso e le coste della Toscana, circostanza che favorì flussi migratori di popolazioni “continentali” le quali, alla ricerca di un clima relativamente mite, si spingevano verso le aree più meridionali. Per tale ragione gli studiosi ritengono che la parte di territorio corrispondente all’attuale Corsica venne popolata in una fase successiva (tra 15 mila e 42 mila anni fa) quando si era registrata un’attenuazione della rigidità climatica.

Peraltro in Sardegna la cultura materiale si sviluppa in un’epoca assai successiva, vale a dire circa 8 mila anni fa, nel neolitico antico, con la creazione dei primi insediamenti umani stabili e la produzione di rudimentali utensili di pietra lavorata. E’ proprio all’inizio del VI millennio a.C. che la colonizzazione neolitica, partendo dall’Oriente fertile (la Mesopotamia), investe vaste fasce costiere e le isole del Mediterraneo occidentale gettando per mare i germi della nuova civiltà conseguente alla prima grande “rivoluzione agricola” ed alle relative innovazioni socio-economiche.
Da allora la Sardegna è attraversata da un’interessante sequenza di manifestazioni culturali. Iu cultura di Bonu Ighinu è la prima a sv ilupparsi, intorno al 3.900-3.600 a.C., a Mara in provincia di Sassari, attraverso la produzione di ceramiche e macine da mulino. Quindi, fra il 3.000 e il 2.500 a.C., si afferma – inizialmente nei pressi di Ozieri e dunque sempre nel Nord della Sardegna – la cultura di San Michele.
Due grandi opere contraddistinguono questo periodo: la ziqqurat di Monte d’Accoddi, a pochi chilometri da Sassari, e la necropoli di Pranu Mutteddu, nei pressi di Goni, sull’ altipiano del Gerrei. Coeva alla cultura di San Michele é la cultura di Arzachena: a Li Muri, una località a pochi chilometri dalla Costa Smeralda, sorge il più imponente complesso di tombe a circolo della Gallura.
Alla fine del III millennio a.C., nei pressi di Cagliari, fa la comparsa la cultura di Monte Claro (detta anche de! vaso campaniforme) e, nei pressi di Osilo, la coeva cultura di Abealzu Filigiosa. Intorno al 1.800 a.C., mentre si afferma la cultura di Bonnanaro, ha inizio la civiltà nuragica che rappresenta la manifestazione più originale e compiuta della preistoria salda. Tale civiltà, che troverà espressione attraverso quindici secoli, ha lasciato i nuraghi: i maestosi monumenti di pietra che ancora oggi contraddistinguono le grandi solitudini della Sardegna. La Sardegna è una terra dove tutto richiama il passato.
Un sottile filo lega la cultura prenuragica e nuragica a quella fenicio-punica, romana e cristiana. Il fatto di essere un’isola, infatti, se da un lato ha comportato molti svantaggi, al tempo stesso, ha determinato la ripetizione – nel corso del tempo – dei modelli comportamentali e culturali e quindi ha favorito il mantenimento di un’identità più spiccata, immediatamente avvertibile da parte di chi entra a contatto con questa terra.
Il popolo sardo, per l’isolamento geografico, da sempre è stato costretto alla riproposizione della propria cultura sulla quale hanno operato, secondo una dialettica fatta talvolta di aspri conflitti e più spesso di graduali integrazioni, le influenze esterne derivate dalle varie dominazioni. Tuttavia l’assorbimento non é mai stato acritico e passivo. I sardi hanno sempre rielaborato i modelli esterni che hanno adattato al loro linguaggio ed alla loro cultura primordiale.
Per questo carattere dei sardi – aperto ma, al tempo stesso, “conservativo” e “resistenziale” – la cristianizzazione dell’Isola non fu né semplice e né rapida: circostanza che favorì il permanere, frammisti alla religione che si andava imponendo, di elementi pagani taluni dei quali riscontrabili ancora oggi. In certe preghiere rivolte al Cristo non mancano invocazioni al sole e alla luna. Sa perda de s’ogu, usata contro il malocchio, ad esempio, diventa l’occhio di Santa Lucia. Per sconfiggere le antiche idolatrie il clero, più di una volta, ha dovuto assorbirle cercando di darle un significato cristiano.
Del mito di Adone – la divinità che moriva e risorgeva ogni anno simboleggiando la natura fiorente spenta dall’inverno e ridestintesi nella primavera, e dunque il perenne alternarsi della stagioni – ancora permane in tutta la Sardegna una fievole eco nell’usanza di deporre i vasetti contenenti i pallidi steli de “su nenniri”, germogliati nell’oscurità, intorno al sepolcro del Cristo durante la Settimana Santa: così come facevano gli antichi fenici offrendo i germogli del grano a quel loro giovane dio. Reminiscenze bizantine (derivanti dalla chiesa greca) sono tuttora presenti nel rito della benedizione delle case in occasione della Pasqua da parte del prete (il mangiamo). Di questo rituale si tramanda una misteriosa filastrocca che dice: “Mangiamo, Kilissò, Kifané; un’anguli a su piccioccu, tre arrialis a sa craccida”.
In fondo, a pensarci bene, anche la Pasqua si ricollega in qualche modo ad una tradizione precedente al cristianesimo. Infatti, come tutti sanno, a differenza del Natale, é una festa “mobile”. Più precisamente viene celebrata nella prima domenica successiva al plenilunio dell’equinozio primaverile. Per tale ragione cade nel periodo compreso tra il 22 marzo e il 25 aprile. La Pasqua si ricollega dunque al calendario lunare biblico: così venne stabilito nel Concilio di Nicea del 325. Dalla data in cui cade la Pasqua dipendono tutte le altre feste mobili dell’anno liturgico.
Più in generale – anche in Sardegna – simbologie, ritualità e credenze cristiane si fondono con elementi culturali e materiali del substrato pagano e magico. Spesso rosari, amuleti, reliqua- ri, ex voto e talismani convivono e si confondono facendo emergere significativi elementi di continuità. Qui la gente ha una religiosità antica, carica di echi e suggestioni, una spiritualità cristiano-pagana che affonda le radici nelle diverse doinina/ioni: Fenici, romani, vandali, bizantini, spagnoli. Ogni popolo che é sbarcato in questa terra ha portato non solo le armi e i desideri di egemonia ma anche la sua religione e le sue credenze.
Molti dei luoghi in cui le popolazioni primitive si recavano ad adorare gli idoli di pietra hanno mantenuto nel corso del tempo la loro destinazione sacra. I a chiesa di San Giovanni del Sinis, ad esempio, è stata costruita sui resti di un luogo di culto romano che si sovrappose ad un precedente tempio punico il quale, a sua volta, era stato innalzato sui ruderi di un tempio più antico legato al culto delle acque.
Ancora, sotto il tempio romano di Antas dedicato al Sardus Pater, la maggiore divinità della Sardegna antica, riaffiorano i resti di un precedente edificio cartaginese che numerose iscrizioni puniche indicano dedicato al dio Sid. E tutto intorno si trovano importanti vestigia della civiltà nmagica. Iti cultura indigena che precede e poi affianca quelle dei primi dominatori. Evidentemente in questo luogo ci fu una continuità del culto pur nel mutare dei protagonisti. Nel corso dei secoli dunque le divinità cambiano ma il carattere sacro del luogo resta e con esso permane il sentimento religioso del popolo ed il valore che si collega allo spazio fisico in cui il culto si esprime nelle Forme esteriori. Nelle città la stratificazione storica è ancora più evidente.
L’attuale abitato di Sant’Antioco, ad esempio, presenta una struttura urbanistica piuttosto complessa, retaggio dei vari insediamenti succedutisi, senza soluzione di continuità, nel corso del tempo. La moderna cittadina occupa gran parte del sito dell’antica colonia fenicio-punica di Sulci di cui pertanto non sono visibili emergenze monumentali di particolare rilievo. La basilica di Sant’Antioco martire, consacrata dai monaci vittorini nel 1102, costituisce la riedificazione di una chiesa più antica di epoca bizantina, risalente al VI secolo, realizzata in Forme architettoniche assai simili al San Saturno di Cagliari. Ma nella stessa area, in precedenza, erano state ricavate le catacombe paleocristiane, parzialmente sovrapposte ad una preesistente necropoli punica. Ed ora la basilica presenta una facciata tardo barocca, del Settecento, forse disegnata dall’ingegnere militare Saverio Belgrano di Famolasco.
La Dea Madre, divinità comune a tutte le popolazioni neolitiche del Mediterraneo, era considerata il simbolo della fertilità e della rigenerazione della vita ed esprimeva la spiritualità di un popolo ancorato ad una struttura sociale di tipo matriarcale. Venne scolpita almeno quattromila anni fa, con un’essenzialità plastica davvero impressionante, proprio per simboleggiare la natura feconda e rigeneratrice. Ad essa si ricollega – con molta probabilità – anche la figura di Orgia, divinità fecondatrice adorata nelle primitive società sarde.
la radice “org” – che significa acqua – la ritroviamo in numerosi toponimi della Sardegna: Orgosolo (che venne edificata in un terreno acquitrinoso), Sorgono (che, non a caso, presenta un territorio ricco di sorgenti), ecc. Secondo i filologi il termine òrgia si ricollega al sànscrito ùrg’às che, tra i vari significati, ha quello di “succo” e quindi di liquido. L’India antica é dunque un mondo meno lontano rispetto a quanto si possa pensare: la radice culturale é la stessa. Quando si parla di popoli “indoeuropei” si Fa riferimento proprio a questa comunanza di origini. Fatto sta che i caratteri culturali del sànscrito vennero in parte assorbiti dalla lingua greca per giungere poi sino a noi attraverso la civiltà latina.
Le orgie erano cerimonie a carattere religioso che si compivano in uno stato di esaltazione e convulsione. Presso le popolazioni elleniche il termine indicava certi sacrifici notturni – che si celebravano in onore di Bacco – ai quali erano ammessi i soli iniziati e dove, sotto l’influsso del vino, si commettevano cose indicibili. Chissà se analoghe cerimonie si svolgevano anche nell’antica Sardegna.
Nelle società tradizionali, attraverso il banchetto, soprattutto se notturno, si univano cibo ed eros, si coniugava il bisogno primario del cibo al bisogno, altrettanto primario e potente, dell’attrazione sessuale. La cultura sarda, all’origine, esprimeva anche una colleganza profonda con i flussi della vita, con le pulsioni primarie dell’uomo sano nella sua pienezza di persona, con tempi ancora capaci di gustare eros e cibo immersi nel grande respiro della natura. In epoca punica, nell’Isola la dea più venerata e temuta era Tanit simboleggiava l’amore e la morte ed esigeva dai suoi fedeli anche sacrifici umani. Nello stesso periodo doveva essere diffuso anche il culto del dio Bes, di sicura origine egiziana, penetrato tra i fenici in conseguenza della lunga dominazione esercitata dai faraoni nella terra di Canaan. Stame di questa divinità vennero trovate a Karalis, Maracalagonis, Bitia e Fordongianus. Inoltre erano praticati i culti di Baal, Melqart, Sid, Ashtart. Iside (di origine egizia con Bes), Demetra (di origine greca) e di altre divinità. Questi culti, sotto il dominio di Roma, non scompaiono ma subiscono processi di graduale adattamento che confermano la continuità delle pratiche religiose e delle credenze tra le popolazioni sarde.
Stessa continuità è dato reperire nella vasta produzione artigianale: quei medesimi motivi ornamentali geometrici presenti nelle ceramiche che vanno dal VI millennio a.C. fino alla colonizzazione romana li ritroviamo ancora oggi non solo nei vasi di Assemini e di Oristano ma anche nei tappeti di Mogoro, di Uras, di Nule, di Isili e di tanti altri centri dell’Isola. E ancora li ritroviamo negli arazzi e nelle cassapanche lavorate a Desulo, Tonara e Aritzo.
L’artigianato sardo, nelle sue espressioni autentiche, riflette l’indole delle popolazioni, l’ambiente naturale e le vicende storico-culturali che si sono svolte in questa terra di antica civiltà. I sardi, pur accogliendo i nuovi impulsi, sono conservatori. Per tale ragione le produzioni artigianali si sono evolute rimanendo sostanzialmente fedeli alla tradizione e ancora oggi rivelano una straordinaria ricchezza di fantasia che si esprime in manufatti di rara bellezza e originalità.
I a continuità ha determinato, nel corso ilei secoli, il formarsi di una forte identità culturale, dai connotati etno-storici, che si coniuga con un territorio in cui la qualità ambientale si mantiene assai elevata nonostante interventi urbanistici inadeguati. Spesso, soprattutto nelle zone interne, le attività umane fanno parte esse stesse del paesaggio, insieme di elementi naturalistici e antropici che differenzia la Sardegna da ogni altra terra.
Ma la diversità della Sardegna la si avverte immediatamente anche nella straordinaria ricchezza del canto, dei suoni e dei balli popolari. Appartiene al folklore musicale sardo uno dei più antichi strumenti del Mediterraneo, le launeddas, il cui suono misterioso esprime l’anima di questa terra e delle sue genti. la diffusione di tale strumento fin da epoca anteriore alla colonizzazione punica è documentata attraverso il bronzetto del suonatore, rinvenuto in agro di Ittiri, attualmente custodito nel Museo archeologico nazionale di Cagliari.
In questa terra il canto funebre più diffuso è detto attìtidu (dal latino attitiare che significa attizzare, rinfocolare): nome che deriva senza ombra di dubbio dalla sua primitiva funzione che era quella di incitare alla vendetta per un morto ammazzato. In seguito s’attitidu ha subitio un’evoluzione e si è stemperato nella forma di lamento del dolore e di canto delle qualità del defunto.
Molti dei riti e dei canti religiosi tuttora presenti nell’Isola risalgono alla dominazione iberica. Durante i quattro secoli in cui la Sardegna fu prima catalana e poi spagnola, il popolo sardo assimilò gradualmente non solo le istituzioni, le leggi, la lingua, la cultura e le tradizioni, ma anche il costume e il modo di pensare. Ma l’assimilazione, come detto, non fu acritica e passiva. E proprio in tale periodo, attraverso un graduale processo, maturò la consapevolezza dei sardi di essere un popolo “distinto” dai suoi dominatori: consapevolezza che costituisce la base fondamentale per l’affermazione della propria identità etno-storica e dei valori della moderna autonomia.