Identità e vita di montagna: i caprai del Supramonte_di Leo Fancello

Quasi quarant’anni fa, ebbi la fortuna d’incontrare quello che oggi posso definire l’ultimo superstite di una tradizione secolare. In un freddo pomeriggio d’inverno, mi trovavo con l’amico Giammichele in un arido pianoro carsico posto in cima al Supramonte di Dorgali; qua e là sentivo il tintinnio di alcune capre al pascolo, segno della presenza di un vicino allevamento. All’improvviso apparve un caratteristico quanto interessante personaggio: ziu Bovore. Stava a cavalcioni di un asino, portava il fucile a tracolla, la cartucciera in vita ed i tipici gambali in cuoio dei pastori

Viveva in solitudine, talvolta per più settimane, in una capanna circolare di pietra e legno, tipica dei nostri monti. Accudiva il gregge di capre di sua proprietà e alcuni maiali che teneva confinati in una grotta. 

Attraverso i gesti antichi e la genuina ospitalità di questo pastore eremita, rude e scontroso all’apparenza, ospitale e bonario nella realtà, scoprii i sistemi di vita ed il lavoro di chi costruì gli stupendi cuiles che, vecchi e abbandonati, incontravo spesso durante le escursioni nei Supramontes.

 Quelle mirabili testimonianze di architettura montana, segno tangibile di un’antica tradizione, destavano in me curiosità  ed un senso di inquietudine, quasi di mistero. Le svettanti e superbe capanne, immerse in una desolata e sconfinata solitudine, apparivano ai miei occhi come i muti guardiani di un mondo oramai definitivamente scomparso.

Osservando la capanna dove abitava ziu Bovore, pensavo che in quei pochi metri quadrati si lavorava, si dormiva, si trovava riparo dalla pioggia e dal vento, qualche volta nascevano dei  bambini, spesso avvenivano drammatiche e feroci tragedie. In quel circolo di pietra, con il tetto in tronchi di ginepro, così simile alle abitazioni nuragiche, si consumavano gli anni di una vita dura e selvaggia. Anni scanditi dai ritmi arcaici della vita pastorale: la mungitura e la lavorazione del latte, la nascita dei capretti e la ricerca della preziosa acqua, il taglio della legna o, raramente, la gradita visita di un familiare o di un ospite inatteso.

Questo incontro mi portò a conoscere meglio la vita dei caprai dei Supramontes, facendomi raccontare dagli ultimi vecchissimi superstiti le loro storie. Purtroppo tutti sono morti da molti anni; ma le testimonianze, gli aneddoti e i ricordi raccolti, evocano un mondo straordinario, popolato da personaggi non comuni, protagonisti di un’era non ripetibile, legati indissolubilmente alla nostra cultura più genuina. Molti vecchi pastori hanno voluto rivelarci, vincendo l’atavico riserbo, interessanti spezzoni della loro vita sui monti, conditi da episodi dei quali sono stati testimoni. Con gli occhi velati dai ricordi, lacerati da una profonda malinconica nostalgia e con voce commossa, ci hanno condotto con sensibilità e modestia in una dimensione senza tempo, a noi sconosciuta, raccontandoci del loro mondo perduto, dimentichi della vita durissima trascorsa. Lucidi, però, nel ricordare le date, gli avvenimenti, oppure le caratteristiche e i nomi dei propri animali; orgogliosi del loro lavoro e del passato mai rinnegato. La loro avventura sui monti iniziava già da piccoli, raramente i figli dei pastori riuscivano a concludere le Scuole Elementari: generalmente all’età di sette anni raggiungevano il padre nel Supramonte per aiutarlo nella cura del gregge, condividendo con lui i lunghi giorni di solitudine e pesante lavoro. 

Per il bambino si trattava di una scuola di vita, estrema e difficile, in un’età dove il desiderio maggiore è quello di giocare con i propri coetanei o stare al caldo della propria casa. A dispetto dei propri sogni, rincorreva le capre in un territorio aspro e selvaggio, sferzato dalla pioggia e dal vento o tormentato dal sole rovente. I cani del cuile (ovile) e gli animali del gregge sostituivano i compagni di gioco; i suoi giocattoli erano l’immancabile fionda e pochi oggetti in ferula e legno: un piccolo carro in miniatura, uno zufolo… La sua presenza permetteva al genitore di assentarsi, senza lasciare il gregge incustodito. Tristi eventi, come un padre che moriva improvvisamente o che finiva incarcerato per lunghi anni, costringevano dei ragazzini, poco meno che adolescenti, ad affrontare la dura realtà dei monti. Molti bambini sono cresciuti nel cuile con la propria famiglia, rinunciando anche all’istruzione di base. Soltanto pochi potevano permettersi di percorrere lunghi tragitti fino alla scuola del paese. Un vecchio allevatore dorgalese ci ha raccontato che, tra il 1925 e il 1930, insieme alla piccola sorella, si recava a scuola scendendo dal M. Omene, ogni giorno e con qualsiasi tempo. Un percorso impegnativo anche per un adulto. Per niente scoraggiati o piegati dalla fatica, sproporzionata per la loro piccola età, riuscirono ad essere ugualmente tra i migliori della propria classe. 

Nella famiglia del pastore supramontano, il ruolo della donna assumeva una funzione di estrema importanza, sia che essa fosse la madre, la moglie o una sorella. Non poche donne condividevano con il marito ed i figli la difficile vita dei monti per tutto l’anno. Quasi tutte, comunque, con l’arrivo del bel tempo, coincidente anche con la chiusura delle scuole, si trasferivano nell’ovile e vi soggiornavano fino all’autunno.

I loro compiti non erano affatto di tutto riposo e partecipavano attivamente alla conduzione dell’allevamento, mentre il marito poteva finalmente occuparsi anche di altri lavori. La donna mungeva, preparava il formaggio e gli altri prodotti del latte; zappava l’orto e rassettava la capanna di abitazione (pinnettu). Nei momenti liberi filava la lana e si recava nella foresta per raccogliere le ghiande per i maiali; oppure, con la pesante brocca in testa, andava giù a valle a prendere l’acqua, percorrendo distanze lunghissime. Era lei che, dopo mietuto l’orzo ed il grano, lo batteva con un pesante strumento (su mazzu) per separare i chicchi, vagliando ed insaccando i preziosi cereali.

Grazie alla sua naturale capacità, l’alimentazione diventava più varia e curata: pasta, verdura e legumi, integravano i pasti prevalentemente a base di carne e latticini del pastore.

In mancanza di una moglie, di tutte queste mansioni se ne occupavano madri e sorelle. Le donne della famiglia badavano a portare le provviste ai pastori che non potevano lasciare incustodito il gregge, perché soli o talmente vecchi e malati da non poter più sopportare le lunghe camminate fino al paese. Procedevano da sole, con calzature e abiti inadeguati, in mezzo ai mille pericoli della montagna, tra pietraie e profondi dirupi, con una pesante cesta in asfodelo (isporta) portata sulla testa. Un sacrificio che, in genere, compivano periodicamente sino a tarda età, semmai fossero riuscite a sopravvivere alle fatiche e agli stenti di un’esistenza difficile. Moltissimi anni fa chiesi ad alcuni caprai, oramai vecchissimi, come facessero a trasportare il formaggio al paese o il pane carasau nel Supramonte dove avevano l’ovile. Alcuni risposero che per il trasporto utilizzavano i carri a buoi dei carbonai o dei taglialegna, in cambio di qualche forma di formaggio. 

Un’altro rispose: ” mia moglie (o mia sorella…) portava il pane carasau dentro una sporta in asfodelo fino all’ovile, talvolta impiegando un giorno di cammino. Ritornavano poi al paese trasportando nella medesima sporta alcune forme di formaggio…”

“Ma non potevate usare un asino?” chiesi io…

“L’asino ha un’andatura trotterellante e sbriciola il pane carasau e ammacca le forme di formaggio” rispose senza esitazione..

“Ma potevate usare un cavallo allora!” Insistei…

“Il cavallo costa troppo e su queste rocce è facile che si azzoppi!” … concluse, con molta sicurezza.

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