Il Parco Letterario “Giuseppe Dessì” annovera al suo interno un cospicuo numero di scrittori e poeti che, sulla scia di “Paese d’ombre”, proseguono la narrazione del nostro lembo di Sardegna, che il Dessì amava chiamare “Parte d’Ispi”. Nell’attesa di conoscerli, mi permetto di presentarvi Sandro Renato Garau che, dopo il suo percorso lavorativo da insegnante di Italiano e Storia nelle scuole superiori, ha iniziato l’importante opera di scrittore e poeta, attingendo dal suo trascorso nel sociale (cofondatore del Gruppo Scout Agesci Guspini1°) e da amministratore locale, tuttora impegnato in politica, con la nascosta aspirazione di essere utile alla sua comunità, motivandola a risollevarsi, dopo il crollo dell’epopea mineraria di Montevecchio. L’importante luogo produttivo, distintosi a livello europeo, rendeva ancora ricca e autorevole la sua comunità. Attratto, come tanti giovani che guardavano al loro futuro attraverso l’industria mineraria, Sandro preferì studiare, forse perché il mondo del lavoro non gli era ignoto, visto che suo padre da mugnaio governava un’impresa con diversi addetti. Laureatosi presso l’Università agli studi di Cagliari a.a 1982/83, in Pedagogia, scelse una tesi ad indirizzo etno-antropologico sul lavoro nelle miniere di Montevecchio dal titolo: “Il lavoro e le sue rappresentazioni tra i minatori di Montevecchio” 1930 -1960”. Lo incuriosiva il processo d’educazione e formazione che indusse bambini, bambine, giovani e donne a scegliere quel duro lavoro, intriso di nascosti ed insidiosi pericoli. Questa sua curiosità lo porterà nel 2006 alla pubblicazione del suo primo saggio “Incontri”, tratto appunto dall’esperienza dell’uomo nel sottosuolo nelle miniere di Montevecchio. Da allora parteciperà a diversi concorsi letterari e pubblicherà nel 2007 nuove opere, racconti e poesie, ispirate al mondo minerario come: “Pasqua 1961” e “Tra passione e resurrezione: Una piccola storia”. A seguire pubblicò il suo primo romanzo, che non poteva che essere storico, datato 2009: “Un sogno … una miniera”; il secondo, edito da Petirosso Editore, “Juan @ Rosada”, vide la luce nel 2014. Per le sue ricerche fu invitato nel 2020 nella città di Sassari, che commemorava il centenario di nascita del suo illustre cittadino e imprenditore Giovanni Antonio Sanna concessionario della miniera di Montevecchio, con la relazione dal titolo provocatorio: “Alle origini della società Montevecchio: Il ruolo di Giovanni Antonio Pischedda“ (1842-1848). Il sacerdote Pischedda costituì con il Sanna una prima società a Marsiglia per lo sfruttamento delle miniere di Montevecchio, che il prelato, prima del Sanna, frequentava già come ricercatore minerario, per poi esser estromesso nella nuova società che il Sanna costituì a Genova e con la quale ottenne la concessione perpetua della miniera di Montevecchio.
A seguire, sempre nel 2020 pubblica il terzo romanzo dal titolo “Agemina”, una bella storia fra amici immersi nel repentino cambiamento della società, alla ricerca delle realizzazioni personali. Un suo estimatore dice di lui: “Sandro Renato Garau come un abile artigiano, impreziosisce la narrazione rendendola non solo evocativa ma anche “visiva”, spesso di un fulgore talmente “puro” da rapire il lettore e farlo immedesimare negli ideali e, a volte, nei sogni mancati, seppure mai accantonati, dei protagonisti”.
Nel 2022 con la poesia “Viola” partecipa alla rassegna “Il Giro d’Italia delle poesie in cornice” per la casa editrice Montedit. In questi ultimi due anni scrive il racconto con “Il Cristo di Arquentu”, inserito nell’antologia “Racconti di Sardegna” e l’ultimo libro, pubblicato nel 2023, sempre dall’Editore Pettirosso, dal titolo “L’Ineffabile volo”. Quest’ultima opera è un “exercitia”, quello che l’autore fa, cercando di immedesimandosi, in prima persona, in Maria, la protagonista femminile del romanzo.
Sandro, come tutti lo chiamano, collabora inoltre come pubblicista con il periodico locale “La Gazzetta del Medio Campidano” e in attesa della sua prossima opera, per meglio conoscerlo propongo un suo breve saggio dal titolo “Egidio – Primo giorno di lavoro”.
EGIDIO
Primo giorno di lavoro
La giornata era stata fredda. Il pallido sole di fine gennaio non aveva scaldato che per poche ore i tetti delle case. Una luna, con gobba a levante, irradiava i suoi ultimi raggi sulle tegole e sui muri in ladini del paese. Nell’acciottolato riecheggiavano i passi furtivi degli uomini che rientravano a casa per cena. I chiodi delle scarpe confezionate da zio Severino accarezzavano le pietre di fiume dell’acciottolato delle vie del centro storico di Guspini.
Anche Egidio ritornava a casa, quando le campane della parrocchiale chiamavano alla compieta. Il giorno di festa era passato. Inesorabile sarebbe arrivato il lunedì. Un lunedì che avrebbe riportato tutti alla quotidianità, rifletteva Egidio. Ogniuno avrebbero ripreso il lavoro usato dei campi e della miniera. Per lui, questo lunedì, però, sarebbe stato speciale.
Pensava: gli operai di miniera sono i più fortunati, non come babbo che si consuma dietro al gregge e in balia delle stagioni. I minatori non dipendono dalle bizzarrie del tempo come gli agricoltori e gli allevatori. Forse era la vernaccia di Milis bevuta nel botteghino di zio Eligio; una leggera euforia lo accompagnava. Non riusciva a pensare ad altro. Le ultime parole di babbo Peppino, che gli ordinava di recarsi a Gennas, nelle Miniere di Montevecchio, e presentarsi per il colloquio e la visita che lo avrebbero fatto diventare operaio, si rincorrevano nella sua mente nel silenzio della notte.
Il padre aveva fatto le cose per bene. Ha parlato con un sorvegliante che a sua volta a sottoposto il caso a uno dei vice-direttori, che ha dato il suo assenso. Il giovane si sarebbe dovuto presentare in direzione il lunedì successivo.
A Peppinonon era costato né molto, né poco, secondo il suo modo di sentire e il costume del paese. Mario, sorvegliante in miniera, aveva gradito l’agnello femmina portatogli facendo i soliti complimenti e dichiarando che non si sarebbe dovuto disturbare.
Impossibile elencare il tumulto di emozioni, i desideri, le immagini, le speranze che evocava il mondo minerario in Egidio. Ripercorreva con la mente le avventure riferite con un po’ di goliardia, dai molti minatori tra una vernaccia e l’altra, o nelle pause durante le battute di caccia al cinghiale.
Per Egidio era un sogno. Chissà come l’avrebbe presa Filomena. Da qualche tempo lo osservava durante la messa domenicale. Pensando a lei, a volte, non riusciva a chiudere occhio la notte. Filomena aveva due anni in meno. Era figlia di Abele, perforatore in miniera. S’incontravano in chiesa ogni domenica alle undici, alle feste della tosatura e a quelle paesane. In particolare per “Sa Festa Manna”, Santa Maria Assunta quando tutti erano più liberi dalle incombenze quotidiane. Era il momento della chiusura dell’annata agraria e babbo Peppino pagava i debiti contratti nell’anno e assumeva il nuovo servo-pastore. Acquistava i finimenti e i campanacci per il bestiame, l’orbace e qualche utensile per la casa richiestogli da Peppina, sua madre.
Egidio aveva davanti agli occhi l’immagine della fresca bellezza di Filomena all’ultima tosatura. I capelli ricci, lunghi, sciolti sulle spalle, ricoperte da un leggero corpetto di lino. La madre di lei, Mariangela lo aveva tessuto al telaio. La ragazza aveva Il seno alto, virgineo e vigoroso. I fianchi arrotondati, le gambe ricoperte dalla lunga gonna che concedeva, allo sguardo voglioso dei giovanotti, solo le caviglie e i piedi candidi.
Chissà cosa avrebbe pensato della sua avventura in miniera. I due si piacevano. Non era un mistero né per loro, né per le più acute comari del paese. Dovevano solo dichiararsi secondo l’uso. Adesso, però, bisognava stare calmi e andare verso la meta. Questo toglieva il sonno ad Egidio.
Il compagno col quale avrebbe percorso la strada a piedi sino a Gennas gli aveva dato appuntamento a Cuccureba. Vicino all’abbeveratoio. Alle tre del mattino di lunedì doveva trovarsi lì. Arrivato al centro delle miniere, a Gennas, si sarebbe dovuto presentare all’ufficio personale nella palazzina della Direzione. Poi, se fosse stato accettato, lo avrebbero mandato all’ospedale a far la prescritta visita medica. Ripassava mentalmente le possibili risposte a eventuali domande cercando di non dimenticarne nessuna.
Alle due del mattino mamma Peppina lo chiama per ricordargli che è ora. Dopo aver raccolto dal pozzo un secchio d’acqua, lo versa nel catino e, con ambedue le mani, rimuove dal viso i sogni della notte. I rintocchi delle campane gli infondono nuovo vigore. Peppina ha preparato la colazione nella cucina illuminata da due lampade alimentate dall’olio del lentisco. La colazione è ricca, importante, come il giorno che Egidio deve affrontare. Indossati gli abiti buoni, riposti nello zaino quelli da lavoro, dopo aver ricevuto il bacio benedicente di mamma Peppina, esce.
La luna è già tramontata. Il buio avvolge l’acciottolato, il silenzio è interrotto dai passi degli operai della miniera e dai loro borbottii, dallo stridere delle ruote dei carri a buoi e delle carrette trainate dai cavalli che si avviano a lavoro. L’aria, in quella mattina di gennaio è gelida. Per fortuna non piove e le stelle illuminano la strada.
Saluta chi incontra con la solita frase: ’Ave Maria!’, sentendosi rispondere, come d’uso: ’Gratia plena!’. Il messaggio è ricco di buoni auspici. È un saluto di speranza.
Dopo aver percorso la parte alta del paese con le sue viuzze strette eccolo in sa bia de sa mena in vista dell’abbeveratoio di Cuccureba. Lì una frotta d’operai parla sotto voce raccontando la domenica ormai trascorsa. Non c’è ancora il compagno di Egidio. I rintocchi delle campane indicano le tre. Gli operai si avviano per il sentiero tracciato verso Perda de Cuaddu, Toguru, Sciria, Piccalinna, S. Antonio e infine l’erta verso Gennas.
Egidio raggiunto dal compagno parte. Il collega lo precede con passo sicuro seguendo il noto sentiero. Gli ultimi scampoli della notte riportano alla mente di Egidio immagini antiche e fatti lontani. Il fruscio delle fronde dell’erica, della filirrea e del cisto ai bordi del sentiero, mossi dal vento di tramontana, trasmettono sensazioni e messaggi di vita atavica mai spenti. Al forte latrato dei cani, interrotto dal sopraggiungere degli operai, si unisce il tintinnio dei campanacci del bestiame che, stancamente, rumina. Tutto sembra nuovo, tutto è stupore, anche le luci accese nei pressi del Pozzo di Piccalinna e di sant’Antonio.
L’ultimo tratto di salita, da Pozzo S. Antonio a Gennas, è il più faticoso, sembra non finire mai. Dal sentiero che interseca la strada polverosa è ormai facile scorgere gli operai che salgono a piedi o in bicicletta. I più giovani si accaniscono sui pedali, stanno in equilibrio superando i più anziani che, nelle salite più ripide, scendono, trascinando il mezzo sino al punto in cui le asperità del terreno non permettono loro un piccolo riposo.
Così si va a lavoro in miniera negli anni venti. Egidio osserva e tace. Quando il compagno interloquisce risponde con un sì o un no. È troppo preso dai suoi pensieri.
I pini, piantati da qualche anno, nella vallata di Caravento circondano le case e la sede della Direzione delle Miniere. Il via vai degli operai è continuo, l’aria che si respira è quella di un gran fare. Egidio ne è inebriato.
Il compagno di strada lo saluta per recarsi al punto d’incontro con gli altri operai ed il caposquadra. Si sarebbero rivisti, se tutto fosse andato per verso giusto, alle 14.00, dopo il turno di lavoro.
Solo, a qualche metro dal portone del palazzo della Direzione, aspetta l’arrivo degli impiegati e dei dirigenti che decideranno del suo futuro. Le luci che illuminano il caseggiato si spengono ai primi bagliori dell’alba. Le ultime stelle lasciano il posto ad un cielo terso che si armonizza con le verdi colline circostanti.
Tutto è attesa: del sole che chissà riscalderà la giornata, della vita che forse fiorirà, ancora nuova, in un’esplosione di speranza. Egidio è lì, seduto sui gradini dell’ingresso della Direzione in un’alba che rapidamente allontana la notte.
l custode della Direzione delle Miniere apre il pesante portone. S’intravedono gli affreschi in stile liberty del piccolo cortile, il porticato interno e alcuni ingressi. All’ora stabilita, viene chiamato e varca quel portone esibendo le sue generalità al sorvegliante, al quale spiega il motivo della sua presenza.
Questi lo osserva. Ne ha visti tanti. Soprattutto giovani. Lo invita ad aspettare. Dopo pochi minuti è accompagnato in un salottino arredato con gusto dove viene invitato a sedere. L’ambiente è accogliente.
Alcuni signori attraversano la stanza con delle cartelle sottobraccio. Sono tutti in giacca e cravatta. Le piccole cravatte scure secondo la moda del tempo. I polsini ed i colletti delle camicie inamidati li fanno sembrare di gesso dentro le giacche di foggia parigina. I pantaloni con risvolta e le scarpe a specchio conferiscono loro signorilità unica.
Egidio non si sente adeguato all’ambiente. Parlano solo italiano, qualcuno francese, perfino tedesco e ciò gli appare strano alle orecchie del giovane. Certo l’italiano lo conosce. Il maestro Antonio glielo aveva insegnato alle elementari, ma, nonostante i suoi diciannove anni, non lo aveva usato che poche volte. Non era la sua lingua e nemmeno quella della famiglia.
L’impiegato, che poco prima aveva salutato distrattamente, pronuncia il suo nome invitandolo ad accomodarsi nella stanza.
Dietro la scrivania, un omone alto, due baffi come quelli del Re Vittorio Emanuele, lo saluta cordialmente chiedendogli da dove viene, perché avesse scelto la miniera, cosa avrebbe voluto fare. Egidio risponde a tutte le domande ora in modo impacciato, ora sicuro. Non nasconde le sue intenzioni: vuole lavorare in miniera. Vuole realizzare un sogno, mettere su casa e sposare Filomena. Si sente forte, deciso, pronto ad affrontare qualsiasi difficoltà pur di riuscire.
L’impiegato, che è presente al colloquio ha preso appunti, allo stesso viene ordinato di accompagnare Egidio al vicino ospedale per la prescritta visita medica.
L’ospedale è di fronte alla Direzione. L’anziano medico lo guarda per un attimo, quindi gli chiede di spogliarsi. Può tenere solo le mutandine. Egidio, con un po’ di imbarazzo, obbedisce. Viene pesato, misurato in altezza, vengono rilevate anche la circonferenza vita e il torace, gli viene fatta una radiografia. Il medico gli mette una mano sotto i genitali tastandogli lo scroto per accertarsi che l’apparato riproduttivo non presenti dei difetti.
È facile immaginare ciò che passa nella testa di Egidio quando, rivestendosi, il medico gli comunica che tutto è a posto e che se dalla Direzione daranno il via libera domani potrà iniziare a lavorare. Il medico, riporta i dati sulla cartella clinica, gli porge la mano augurandogli tanta fortuna e lo affida, ancora una volta, all’impiegato. È fatta. Da domani 28 gennaio sarà uno degli operai della miniera. Non gli importa se è l’ultimo assunto, non gli importa dove dovrà lavorare, quanto e come. Sa che potrà guardare al suo futuro con più serenità. Anche Filomena dovrà saperlo.
In copertina Sandro Renato Garau