Nonostante sia trascorso tanto tempo, parliamo di milioni di anni, oggi noi abbiamo una buona conoscenza di tutte le fasi geologiche che hanno portato alla formazione dell’isola di Sardegna, come oggi è a noi nota. Conosciamo l’età geologica delle nostre formazioni rocciose, dei nostri monumenti naturali, delle nostre bellezze carsiche e persino dei primi abitanti dell’isola, grazie ai fossili che la nostra terra ci ha restituito ed ancora forse ci restituirà. Certo è che ancora rimane misteriosa la prima presenza umana che ha calpestato il nostro suolo.
Per diversi studiosi la presenza dell’uomo in Sardegna viene ipotizzata risalente al Pleistocene medio. Un periodo compreso tra i 781 e i 126 mila anni fa, che gli antropologi fanno corrispondere al Paleolitico (Età della pietra). In Sardegna il Paleolitico è diviso in tre fasi: Inferiore, con datazione che oscilla tra il 450.000 e il 120.000 a.C.; Medio, tra il 120.000 e il 35.000 a.C. e il Superiore, tra il 35.000 e il 10.000 a.C. In Sardegna la presenza dell’uomo sarebbe attestata certamente nel Paleolitico inferiore e, a supporto della suddetta tesi, si portano a testimonianza i ritrovamenti avvenuti nell’Anglona, ed in particolare nei comuni di Perfugas e Laerru. Trattasi di manufatti litici riconducibili al Clactoniano Arcaico che ci riportano ad una datazione di circa 450.000 – 200.000 a.C. In diverse sacche alluvionali è stata rinvenuta una grande quantità di manufatti, attribuiti ad un’industria litica a schegge, costituite da punte, bulini, utensili da taglio, da incisione e raschiatoi, ottenuti con la scheggiatura ricavata con la battitura del ciottolo su ciottolo e successive rifiniture.
Sino a qualche anno fa, perché oggi la tesi che vi narro pare non più sostenibile, come testimonianza concreta della presenza dell’uomo in Sardegna, si faceva riferimento ad un reperto costituito da una falange del pollice di un umano adulto ritrovato nella grotta Nùrighe nel comune Cheremule (SS), dal gruppo speleologico Tag di Thiesi. Il reperto, chiamato semplicemente Nur, consentì agli studiosi delle Università di Sassari e Liegi di ipotizzare una possibile datazione. I resti potrebbero appartenere ad una specie umana vissuta intorno ai 250.000 anni a.C.
Particolare è la ricostruzione storico geologica della presenza umana nella grotta Nùrighe, dove il più giovane vulcano sardo, il Cuccuruddu, ancora eruttava lava sino a 100 mila anni fa, nell’area dell’importante sito antropologico. Si è ipotizzato quindi che l’uomo di Nur sarebbe stato vittima proprio di un’eruzione del giovane vulcano che, con la sua lava, avrebbe invaso la grotta ricoprendola e sigillandola definitivamente. Ad oggi il sito ha restituito solo la falange dell’uomo paleolitico ed è rimasta l’incertezza degli studiosi se considerarla appartenente all’Homo erectus o all’Homo sapiens. Purtroppo, così come detto in premessa, pare che, dagli ultimi studi effettuati, i ricercatori siano indotti ad attribuire l’appartenenza della falange non più ad un essere umano ma bensì ad un grosso volatile, presumibilmente un avvoltoio.
La ricerca scientifica comunque non si ferma, e se è pur vero che i reperti ossei umani del Paleolitico inferiore ancora con certezza non si trovano, si è incoraggiati a perseverare sui reperti dell’Anglona; infatti, quegli interessanti manufatti di selce qualcuno deve averli pur realizzati. Altre tracce di possibile frequentazione umana nel Paleolitico sono state rinvenute nelle grotte di Ziu Santoru e di Cala Ilune (Cala Luna) di Dorgali. Lo attesterebbero i resti di focolari rinvenuti, con carboni ed ossa di animali estinti, tuttavia non si hanno datazioni in merito. Comunque, se rimangono ancora dubbi e ombre sul Paleolitico inferiore e medio, una certezza l’abbiamo sicuramente sul Paleolitico Superiore.
La grotta Corbeddu, nascosta nella sua foresta di lecci nella splendida valle di Lanaittu, presso Oliena, ci svela importanti ritrovamenti dell’ultimo periodo del Paleolitico. Il nome della grotta trae origine dall’essere stata rifugio del bandito Corbeddu, che la frequentò durante la sua lunga latitanza sino alla sua uccisione, avvenuta nel 1898. L’anfratto lungo 130 m, ha restituito importanti reperti paleontologici, archeologici ed antropologici, che si possono ammirare nel Museo Antropologico di Nuoro. Anche qui ci sono i resti di focolai, con residui di carboni e animali selvatici che avrebbero fornito un’età di 25.700 anni, ma a differenza dei siti di Dorgali, abbiamo una datazione radiometrica di una falange umana che riporta i poveri resti a 20 mila anni fa.
Nello strato più profondo della cavità, sono invece emersi i resti umani costituiti da un osso temporale e uno mascellare, appartenenti allo stesso individuo, che hanno fornito un’età radiometrica col metodo del radiocarbonio corrispondente a 13.550 mila anni fa. Una successiva scoperta ha restituito un’ulna, ma appartenente ad altro individuo. Pare che questo reperto sia riconducibile ad una morfologia umana differente da quella dell’Homo sapiens. Ciò che lascerebbe ancora perplessi gli studiosi è il fatto che le caratteristiche morfologiche risulterebbero di difficile attribuzione all’Homo sapiens europeo. A causa di queste differenziazioni riemergono allora quelle teorie riguardanti il concetto di isolamento geografico che condizionerebbe gli aspetti morfologici, fornendo quindi caratteristiche proprie a un territorio.
Inoltre, risultano anche particolarmente interessanti i ritrovamenti di ossa di cervo che sembrerebbero aver subito lavorazioni da parte dell’uomo con incisioni e lisciature. Tutto ciò è dovuto, presumibilmente, anche dalle caratteristiche dell’animale, ormai estinto, considerato di grandi dimensioni e appartenente alla specie Megaloceros cazioti che, oltre a fornire abbondate cibo, le sue ossa potevano esser trasformate in strumenti di uso comune e di caccia.
La grotta, evidentemente frequentata per lungo periodo, ha poi restituito ulteriori testimonianze archeologiche che ci riconducono a periodi più recenti del Mesolitico e Neolitico. La presenza del Paleolitico in Sardegna, potrebbe anche essere sostenuta dai graffiti che alcune delle nostre cavità carsiche ci hanno restituito. Che gli anfratti naturali fossero oggetto di antica frequentazione umana è risaputo; del resto gli uomini del paleolitico, dediti alla raccolta ed alla caccia, conoscevano e frequentavano nel loro errare, le grotte carsiche, fosse anche solo per ripararsi dalle intemperie. Le datazioni in merito sono ancora incerte o da effettuare, ma alcuni studiosi già si spingono a considerarli, in alcuni casi, opere dell’uomo Paleolitico.
La Grotta Verde, presso Alghero è una di queste, alcuni studiosi riporterebbero la sua frequentazione al Paleolitico superiore, ossia al periodo della presenza umana nella grotta Corbeddu. Di difficile interpretazione, perché forse oggetto di incisioni successive, sono una rappresentazione antropomorfa (rappresentazione umana) astratta e dei segni a croce, uno dei quali sembrerebbe posto fra due parentesi. Alcuni studiosi accostano questi nostri graffiti all’arte rupestre paleolitica francese; pertanto, nell’opera della Grotta Verde intravvedono una rappresentazione naturalistica legata alla procreazione, indicata in particolare dal segno di croce fra le due parentesi a rappresentazione dell’organo genitale femminile.
Altre misteriose incisioni le troviamo nella grotta Is Janas nel territorio di Baunei. Questa cavità carsica ospita numerosi graffiti che rappresentano figure umane, simboli astratti ed in particolare animali. La caratteristica più importante, che induce ad attribuire al Paleolitico gli interessanti graffiti, è data dalla colorazione rossa che funge da contorno alle figure, indicata come colore del sangue e simbolo di vita e vitalità, elemento particolarmente usato nelle figure rupestri del Paleolitico. In genere gli studiosi rimangono comunque molto cauti nell’attribuire i graffiti della grotta al Paleolitico, poiché gran parte delle raffigurazioni rinvenute nelle grotte risultano attribuite con certezza a periodi successivi, come il Mesolitico e il Neolitico.