Lu coju in chista casa_di Giuseppe Sotgiu

Ogni momento della vita quotidiana degli abitanti dei paesi e delle campagne galluresi erano scanditi dai lenti rintocchi del tempo, da leggi non scritte e soprattutto dal rispetto delle proprie tradizioni e delle proprie usanze. Tutto era rigidamente inserito all’interno di determinati comportamenti facenti parte di un altrettanto rigido protocollo. Prendendo in prestito il titolo della tesi di laurea della tempiese Maria Azara, potremmo dire: “Tradizioni Popolari di Gallura – dalla culla alla tomba”.

Parecchi cultori delle “patrie” tradizioni e della nostra cultura popolare hanno lasciato evidenti tracce di questo passato, ma leggendo e rileggendo quanto descritto, senza averlo vissuto o intravisto, risulta alquanto complicato ridiscrivere o riproporre determinate usanze ormai in disuso. Fortunatamente possiamo utilizzare informazioni di prima mano avendo conosciuto in parte diverse di queste cerimonie, avendo inoltre attinto notizie dalla viva voce di protagonisti che non esiteremo a definire come gli ultimi sopravvissuti da qualche anno scomparsi.

Una di queste usanze particolari era rappresentata dagli “sponsali”, cioè il matrimonio. In campagna e negli stazzi veniva generalmente chiamato “coju”, mentre a Tempio si faceva un distinguo poiché coju stava a significare il matrimonio appunto degli stazzi o un matrimonio comprendente parecchie centinaia di invitati, mentre un matrimonio normale veniva detto “affido”, cioè veniva affidata la sposa al marito e ai suoi familiari.

Ritornando indietro nel tempo, in pieno ottocento, la sposa portava in testa una coroncina di fiori o di verbena e maggiorana e la suocera, nel riceverla sull’uscio di casa dove avrebbe abitato con il marito, le recitava o cantava alcune strofe più o meno improvvisate una delle quali recita testualmente:

Ben vinuta, ben vinuta cara sposa, in chista casa: chi sei bona e avviduta, socu celta e palsuasa. Deu ti dia bona sotti, longa ‘ita e santa molti. Eccu, cara la tò rucca, cu lu fusu e cu la lana; lassati basgià la bucca rosa di maggju galàna. Abai’entra e Deu ti dia paci e cioia e cussi sia.

Ben venuta, benvenuta cara sposa. in questa casa: tu sei buona ed avveduta, ne sono certa e persuasa. Dio ti riservi buona sorte, lunga vita e santa morte.

Ecco, cara, la tua conocchia, con il naspo e con la lana; lasciati baciar la bocca rosa di maggio graziosa. Adesso entra a Dio possa darti pace e gioia e così sia.

In questi cerimoniali vi sono piccole o più marcate differenze e quella che noi andremo ad accennare riguarda il rito più antico del quale ormai si è perduta ogni traccia; ovvero il matrimonio gallurese antico.

La futura sposa invocava la protezione (o esprimeva un voto che in seguito veniva sicuramente mantenuto), di Santa Cecilia o Santa Rita e soprattutto della Vergine delle Grazie, alle quali dedicava un altarino in casa con offerta di mazzetti di fiori o recando direttamente l’offerta nella chiesa. Solo la madre veniva ammessa alle confidenze di quei momenti. Il rito proseguiva con le diverse fasi. Prima “la priconta”, cioè la richiesta di matrimonio;

“l’abbracciu”: l’abbraccio del futuro sposo e bacio sulla bocca, quindi “lu dono”: i regali che consistevano in denaro, oggetti d’oro e fazzoletti di seta (mai oggetti con punte acuminate perché ritenuto gesto di disprezzo e portatori di sfortuna). Durante questa operazione la ragazza restava immobile, seduta tra le amiche o le sorelle e, impassibile, riceveva un bacio sulla bocca da tutti i donatori. Subito dopo si offriva un rinfresco e si poteva cantare e ballare. Nel frattempo la madre della sposa, congiunte le mani dei due giovani, infilava nei loro anulari le fedi. A questo punto precedendo il corteo si avviavano verso la chiesa dove il sacerdote li attendeva sulla soglia d’ingresso. Durante la cerimonia religiosa, al momento della benedizione delle fedi, essi si sfilavano gli anelli dal dito per rimetterli subito dopo. Terminata la funzione religiosa, sempre la madre della sposa o una sua sostituta rompeva un piatto di coccio colmo di chicchi di grano (simbolo della prosperità), dolcetti e monete; questi ultimi raccolti dai ragazzi. Il piatto doveva andare assolutamente in frantumi pena gravissime sciagure. Mentre ci si dirigeva alla casa maritale veniva consegnato alla sposa un canestrino colmo di fiori con dentro due colombe o due tortore che lei, prima accarezzava poggiandole al seno e poi lanciava in alto librandole in volo. Come durante le solenni processioni delle feste patronali o altre feste religiose, dalle finestre e dai poggioli venivano lasciati cadere sugli sposi novelli petali di fiori ed erbe profumate. All’arrivo nella casa dello sposo, altro lancio di dolci e monetine, affinché i fanciulli li raccolgano, ma con buona aggiunta di mandorle e noci. Ognuno interpreta con un proprio significato. Mangiare di quei frutti era di buon auspicio, oppure il giovane dava l’addio definitivo ai giochi e alle piccole ruberie che si facevano nei vigneti e trutte ti altrui, assumendosi così la responsabilità nell’affrontare i problemi della nuova famiglia. Questa usanza è tuttora praticata in Gallura nel paese di Luras. Certe volte l’arrivo nella casa dello sposo non era tuttavia così facile, poiché gli amici di lui erigevano ostacoli e barricate (“la parata”) con i propri cavalli sparando a salve contro il corteo ritenuto colpevole di aver sottratto l’amico fidato. Qui succedeva di tutto e di più. Tutti l’un contro l’altro armati. Lo sposo poteva rapire la sposa e rifugiarsi tra i parenti. Ne nasceva così una nuova battaglia (finta parapiglia come per la “pricunta”) che poteva essere sedata solo dall’intervento dei “paceri” e uomini così detti “di mezzo” con non poche difficoltà in tutto quel trambusto. Questa finta battaglia si svolgeva a volte anche prima della cerimonia religiosa.

Il pretesto era sempre quello di lanciare i cavalli al galoppo e dimostrare la propria bravura. Tutti scalpitavano aspettando con ansia i momenti della “Currita di la rucca” (la corsa della conocchia). Era una piccola “ardia” perché la cerimonia conteneva in sé parecchie varianti. Sintetizzando si può dire che tra le due parti, cioè quella dei parenti della donna e quella dell’uomo si sfidavano in cinque tenzoni. La conocchia donata alla sposa era guarnita con 5 nastri di diversi colori, ognuno con un proprio significato. Lei consegnava questo oggetto al cavallerizzo più provetto della sua famiglia il quale improvvisamente dava di sprone e veniva inseguito da tutti gli altri cavalieri. Ovviamente, i suoi amici cercavano di ostacolare in tutti i modi quelli della controparte, poiché se qualcuno di loro riusciva a strappare dalle mani la “rucca” questi sarebbe stato deriso e considera- to come un buono a nulla. Ovviamente, avendo dalla sua il vantaggio della sorpresa e la copertura degli amici, raramente veniva raggiunto. In premio riceveva dalla sposa uno dei nastri. Non è così importante il valore di un nastro, ma l’altissimo valore simbolico per aver difeso con onore e con orgoglio la propria casata, ma anche quello di aver fatto conquistare uno dei cinque punti in palio per la classifica delle cinque gare.

Le gare erano così descrivibili:

  1. 1) – La currita di la rucca (la corsa della conocchia)
  2. 2) – La puisia (gara poetica a tema libero e obbligato)
  3. 3) – L’afficcu (gara poetica con sfottò e prese in giro)
  4. 4) – La miria (tiro al bersaglio)
  5. .5) – Lu palo culto (trinchino) o lu palo longu (corsa dei cavalli con palio e premi a corta distanza o con percorso più lungo).

A queste gare potevano aggiungersi anche la danza, il canto, lu bringhisi a la tazza (il brindisi al bicchiere) e altre ancora ma senza punteggio. Vinceva ovviamente chi realizzava più punti, ma le gare più importanti erano le due corse dei cavalli.

Il giorno dopo vi era l’usanza di dare una ripassata ai cibi rimasti dal giorno prima: lu sposareddu (piccolo sposalizio); questo è tutt’ora in voga. Certi matrimoni duravano anche una settimana, poiché bisognava consumare quanto preparato ed era tutto un continuo di festa, banchetti, balli, canti e divertimenti. Piatto nuziale la classica “suppa” (zuppa gallurese) nelle diverse varianti, bollito e arrosti, dolci e vini in quantità.

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