Montevecchio, toponimo diciamo recente, lo si riscontra in altri ambiti nazionali ed europei.
Potrebbe esser stato coniato durante il periodo della concessione ad una società svedese guidata da Charles Mandel (1741-1759), conte onorario di Svezia. Il vasto bacino minerario arburese-guspinese, venne affidato all’esperto tecnico minerario sassone Cristian Bösen. La miniera, come in altri ambiti, viene identificata con il nome “Monte”, da cui Montevecchio, miniera vecchia.
Che la miniera di Montevecchio fosse vecchia non c’erano dubbi, non fosse altro perché i filoni si formarono già nell’era Paleozoica, compresa tra i 570 e 245 milioni di anni fa. Mentre il suo sfruttamento potrebbe datarsi a 3000 a.C, ma non abbiamo per il momento certezze, mentre è certa la presenza di cavatori e fonditori d’argento a far data dal IV secolo a.C. Il dato è frutto di una ricerca scientifica del Centro Nazionale Ricerche di Roma, che nel 1996 fece diverse prospezioni, individuando nella zona di Scirìa la prima area della lavorazione dell’argento in Italia. Se da un lato la ricerca scientifica ci da oggi certezza, la presenza dell’uomo, in fase semitica, si era già ipotizzata attraverso i toponimi delle divinità greco-romane che ancora permangono, come: Monte Arcuentu, Montjana (Monte di Diana), e dallo stesso Montevecchio, ancora oggi chiamato Genna Serapis (passo o porta di Serapide), più semplicemente Gennas.
Serapis era la divinità egizia venerata dai greci, ma anche dai romani sin dal 300 a.C. Divinità composita, era adorato come Signore dell’universo, Dio dell’oltretomba (del mondo sotterraneo) e del sole. Tre peculiarità che a Genna Separis trovavano buone ragioni per la sua invocazione. Non si è certi se le genti che frequentavano Gennas avessero eretto un tempio a lui dedicato, rimane solo la scarsa indicazione di miseri resti di un tempio, segnalato dal funzionario regio Carlo Corbetta che nel 1877 visitò Montevecchio. Presumibilmente l’insieme paesaggistico di Gennas, la vita e le attività estrattive che vi si svolgevano, erano esse stesse motivo per l’invocazione alla composita divinità. Chi viveva nell’amena località poteva contemplare, come oggi, con lo sguardo rivolto a ponente, il vasto paesaggio, la distesa dell’infinito mare e gli ineguali tramonti, che davano poi vita alla fantastica e misteriosa calotta celeste. Questo era l’universo piatto di allora, nel quale contemplare ed invocare il Serapis, Signore dell’Universo. Così come si invocava, il Serapis, Dio dell’oltretomba, per la dura attività nel sottosuolo. Ai tempi del Dio Serapide, più che oggi, chi lavorava nelle viscere della terra sentiva forte il bisogno di protezione perché allora il sottosuolo poteva davvero definirsi un luogo infernale, con l’uso del fuoco e l’acqua per gli avanzamenti nelle precarie gallerie. Il bisogno di invocare le divinità non era dissimile dall’oggi, come quando i minatori e le comunità minerarie invocano ancora Santa Barbara. Mentre il Serapis, Dio sole, identificato con la vita che rinasce ogni giorno, aveva il suo magico momento al suo sorgere. Ma a Gennas la contemplazione del sole che sorge non è immediata, per accorgersi del suo primo bagliore, bisognava, come oggi, rivolgere lo sguardo ad ovest sulla la montagna che la sovrasta e che, nonostante le mutazioni cartografiche, viene ancora chiamata Orèris. Toponimo interessante, che si legherebbe al culto del Serapis Dio sole, in quanto Oreris è la seconda persona dell’indicativo presente del verbo latino Oriri (Sorgere): ego Orior, io sorgo, tu Oreris, tu sorgi, tu ti alzi, tu spunti (tu Dio sorgi, spunti, ti alzi).
Questa antica e mistica località venne poi censita dai funzionari regi che allestirono le carte catastali agli inizi del 1800, diciamo pure “ad orecchio”, trasformando Orèris in Orefici. Sono tantissimi gli esempi di distorsioni toponomastiche che possiamo ritrovare nelle carte dell’Istituto Geografico Militare.
Orèris si è comunque mantenuto, lo si ritrova ancora su alcune carte e nell’opera del centenario della Miniera di Montevecchio, sotto la denominazione S’omu de is Orèris, (la casa in regione Oréris), come ancora si è soliti dire per esempio: S’omu de is Trigas, S’omu de Nuracci, S’omu de Urralidi, etc.
S’omu de is Orèris, ha fatto discutere più d’uno sul suo significato, definendolo ora, con assonanza letteraria, “casa degli orafi”; casa di custodia degli ori, (argento e oro ottenuti dalle preziose galene), o il luogo in cui gli operai “facevano ora”, riposavano prima di riprendere il lavoro.
Più pertinente parrebbe l’origine avanzata da Marino Melis, cultore di storia locale, che il termine Orèris derivi dal sardo catalano Obrèris, operai, da cui Domu de is Orèris, Casa degli operai. Il toponimo Obréris non emerge in nessuna carta catastale, ma il termine è ripetuto in numerosi documenti scritti che citano gli operai minerari col termine Obrèris, per cui è verosimile che nella parlata sardo catalana, che ancora perdurava nel tempo, S’omu de is Orèris venisse pronunziata S’omu de is Obrèris, giustificato anche dal fatto che quello strano rifugio era diventato casa di molti minatori che lavoravano nei vicini cantieri.
Per lungo tempo la localizzazione di questa struttura è stata indefinita, alcuni la indicavano a levante di Montevecchio altri a ponente, ed anche le carte hanno subito, in alcuni casi, la stessa imprecisa localizzazione. Tutti parlavano di questa struttura, alcuni indicavano vecchi ruderi abitativi di cui mi fornirono delle foto, ma il dubbio era forte, sino a quando il Presidente Ugo Atzori del gruppo culturale Sa Mena di Guspini, costituito da ex minatori ed appassionati, non mi condusse a visitare uno stano sito.
Lasciato l’abitato di Montevecchio, ci incamminammo sulla carrareccia che porta al vecchio serbatoio idrico per salire poi nella regione Orefici, sino ad un imbocco di galleria. Con una modesta pila Ugo, meglio noto Ughetto, illumina la profondità della galleria, una decina di metri, che termina con una chiusura muraria, e sin qui si potrebbe dire nulla di strano, perché quando hanno messo in sicurezza le gallerie le hanno tutte murate, forse si son dimenticati di murare l’ingresso. Ma quando Ughetto illuminò la volta non mi apparve, come mi sarei aspettato la viva roccia o le vecchie armature, la galleria era coperta da una volta a botte, perfettamente realizzata con conci di scisto locali.
La prima impressione fu quella di trovarmi entro un antico serbatoio senza fondo, presumibilmente crollato o volutamente asportato. La percezione che la copertura di quella breve galleria fosse un’antica struttura idrica, mi venne data da alcuni particolari che richiamano almeno tre delle tipiche caratteristiche dei serbatoi romani (strutture di accumulo d’acqua temporanei) e mantenutesi nel tempo: struttura voltata a botte, leggermente in pendenza; imboccatura dell’acqua, sul fronte nord occidentale, formata da un’apertura quadrangolare di circa 20 centimetri per lato e al centro della volta un’ulteriore apertura, sempre quadrata, di circa 40 per 40 centimetri, che si praticava per l’ areazione necessaria a tenere potabile l’acqua, ma anche per il suo attingimento. Non si evidenziavano le aperture di scarico (non sempre i serbatoi le contemplano), spesso erano costituite da tubature in piombo, ma potrebbero essere state asportate e ostruite dalla chiusura del fondo galleria. Il probabile serbatoio poteva essere riempito per caduta dalla sorgente a monte, sino a quando le escavazioni minerarie non ne hanno variato il corso, perché oggi la fonte si trova ad una quota inferiore, ma da sempre ha alimentato l’abitato di Montevecchio, sino all’entrata in funzione dell’impianto di sollevamento dal bacino Zerbini.
Probabilmente la struttura idraulica non più utilizzata venne poi sfruttata per realizzarvi S’Omu de is Orèris, oggi la certezza ci è data dalla metodica ricerca di Ughetto, con il quale abbiamo potuto condividere la sua esatta ubicazione, ponendo a confronto diverse carte catastali e minerarie.
Quando questa casa, o meglio il rifugio, sia stato realizzato, non è dato sapere, ma è plausibile pensare a due particolari momenti: al 1745, quando il sassone Bösen riattivò le escavazioni a Montevecchio, o al 1843, quando i soci marsigliesi del ricercatore Don Piscedda, volendo accertarsi della concessione si trasferirono a Montevecchio in regione Sa Fraiga, contigua a Orefici. In questa regione, come ci ricorda il l’Ingegner Marzocchi, i soci francesi fecero costruire una capanna ad uso direzione, magazzino e ricovero dei lavoratori.
S’omu de is Orèris divenne così il sicuro riparo per i nuovi escavatori e operai, ma fu anche rifugio sicuro e strategico per Giovanni Antonio Sanna, che dal 1845 lo frequentò durante la vasta ricognizione dell’area, prerogativa all’ottenimento della concessione mineraria perpetua del 1848.
In copertina: il tramonto a Montevecchio fotografato da Is Oreris