Arrivammo nel tardo pomeriggio a Wuhan, il 1 Novembre dell’86, dopo un viaggio che si presentava avventuroso, ma che fu, invece, delizioso. Il Dakota DC3 della CAAC partì infatti con forte ritardo da Yichang, per via di una tempesta di vento.
A Yichang invece splendeva il sole e, per far atterrare il piccolo aereo che ci veniva a prendere, fummo invitati a mandar via le mucche dalla pista, che tra l’altro non aveva luci.
La comitiva di una quindicina di persone chiamate dall’Accademia Sinica, il gotha della geotecnica mondiale di allora, tra cui io che mi distinguevo per il numeroso seguito, era stato dirottato a Yighang (invece che a Guilin), dopo un viaggio avventuroso attraverso le tre gole del Fiume azzurro, per risolvere un problemino da niente: La costruzione della pre-diga sul fiume più impetuoso del mondo, in una delle zone più sismicamente attive del mondo. Eravamo i primi stranieri che da 40 anni e più arrivavano in quella terra. Anni prima c’era stata la storica partita di ping pong tra americani e cinesi, che di fatto riaccese i contatti tra i due mondi, che però erano precipitati nuovamente con l’arrivo della vedova di Mao per poi essersi finalmente stabilizzati nel 1985
In effetti durante il tragitto, fatto con volo a vista e con walkie talkie per le comunicazioni con la torre di controllo, incontrammo almeno due nuvole lunghe trecento metri. Sorvolammo la provincia dell’HUBEI, fatta di risaie che si potevano quasi toccare e quasi planammo sull’aeroporto di Wuhan. Due ore di volo, con pasto a bordo, composto da una tavoletta di carne secca da masticare, un mandarino e naturalmente thè.
Wuhan, la città dai 5 fiumi come ricorda il nome, e dai tanti ponti , ci sembrò sterminata: allora aveva quasi 4 milioni di abitanti, 6 Università tra le più prestigiose della Cina, un porto fluviale con il primato del porto più alto del mondo collegato al mare con una via d’acqua di mille chilometri . Una città moderna, con strade larghe, fiori e ricca di cinesi con bei vestiti tutti rigorosamente grigi. Malgrado la loro modernità i cinesi furono attratti dai nostri abiti “diversi” soprattutto da quelli delle donne della nostra comitiva. Qualcuno arrivò ad aprire l’impermeabile di mia moglie per vederle le gambe (allora le donne occidentali, malgrado il ’68, portavano le gonne!). Fummo invitati dall’Accademia Sinica a Cena in un ristorante famoso, il più pulito che avessimo finora incontrato in Cina e poi nell’hotel “accettabile” anche da un occidentale. Tagliatelle con un sugo di verdure, ortaggi e soia e, per secondo, filetti di pesce di fiume. Niente pane, niente dolci. Frutta mai vista prima. Il giorno dopo, per strada, (apparentemente) liberi di circolare, incontrammo bambini che studiavano , pescatori, ristoratori. Sulla sponda del fiume principale l’Han alcuni vecchietti facevano ginnastica praticando il Tai -Chi. Per strada però vendevano le meline (come quelle selvatiche sarde) caramellate che avevamo già mangiato a Pechino. La sera andammo addirittura a ballare. Mia moglie non fu contenta. Il cinese con cui era stata costretta a ballare le pestava i piedi continuamente. Impazzava Madonna. Io ballavo con la cinesina consorte che era molto leggera e si lasciava guidare. Roberto l’eterno scapolo genovese tentava di farsi dire il nome dalla ragazza che aveva abbordata. Tornò al tavolo sconsolato. Aveva tentato di intavolare anche qualche discorso facendo riferimento a Confucio, Gesù Cristo, Maometto, Marx, ma desistette solo quando la ragazza si illuminò quando le pronunciò Mao. Mentre noi come drink ordinammo un Ginseng, loro, i cinesi, si prendevano il thè o il succo di pompelmo che avevano portato da casa. Il Ginseng sapeva di vermouth e fu una delusione. Chiesi di farmi vedere la bottiglia e il cameriere me la portò: era CINZANO , molto assonante con Ginseng. La sera, per cena la “famosa” zuppa cotta due volte, una specie di consommé in cui si fa poi cuocere verdura e uova accompagnata da un pane di farina di riso. Tornammo da Wuhan soddisfatti. Attendemmo sei ore prima di partire per Canton. Nella notte era venuto giù un diluvio. Mancavano solo due belgi, che si erano ammalati sulla nave e non avevano voluto farsi curare dai due medici che mi accompagnavano.